Interviste agli artisti
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Re: Interviste agli artisti
Il mondo cane di Mike Patton
di Paolo Gallori
Il cantante californiano si tuffa nella musica italiana degli anni 50 e 60, brodo primordiale del nostro pop: da Murolo a Morandi, da Paoli a Tenco, ai crooner Buscaglione e Bongusto... «Mi interessava solo passeggiare su una corda tesa tra il rifare quelle canzoni a modo mio e il rispetto per il materiale originale». Omaggio a Morricone: «Springsteen lo ha deturpato». A luglio dal vivo a Milano e Firenze
Fantomas strikes again... almeno nella musica. Capelli tirati all'indietro, baffetti in Dillinger style, abiti eleganti. È l'aspetto assunto da Mike Patton per tuffarsi nel "brodo primordiale" della canzone pop italiana: gli anni 50 e 60. Il disco è stato "testato" con concerti in location d'eccezione e sarà seguito da nuovi appuntamenti live. In Italia, il 27 luglio a Milano (Jazzin'festival, all'Arena Civica) e il 26 a Firenze (Fortezza da Basso). Stavolta l'incredibile cantante californiano, 42 anni e una voce baciata da un trasformismo degno di Gommaflex, riesce a celare anche la bellezza della musica dietro una maschera spaventosa. L'album si intitola Mondo cane. Come il film documentario di Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi che nel 1962 scioccò lo spettatore sbattendogli in faccia la crudeltà di cui è capace la società umana. Mai come in questo caso, è fondamentale conoscere la "versione di Mike".
«Certo, ho visto il film, chi non lo ha fatto?», dice Mike. «Ho scelto il titolo basandomi sulle reazioni che il film ricevette e perché affascinato dalla sua natura provocatoria. Ho sentito il dovere di presentare un simile repertorio musicale in circostanze che fossero una sfida alle intenzioni e ai risultati. Un titolo come Mondo cane era il modo perfetto di sollevare le giuste domande su un simile progetto, che potrebbe facilmente essere scambiato per la cafonata sperimentale di un "gringo"».
No, nessun arrogante "gringo" abita qui. Patton è un nomade. Incapace di resistere negli stessi panni, negli stessi suoni, nella stessa band e nello stesso paese oltre la soglia dell'abitudine. Mike spezza sul nascere le illusioni di chi continua ad associarlo solo ai Faith No More («Nuovo materiale con loro? Non adesso, forse mai») per parlare solo del miglior frutto del suo intimo rapporto con l'Italia. Mondo cane copre un arco temporale che va dal 1951 - Scalinatella di Roberto Murolo, che Mike canta in un napoletano decisamente migliore di quello tanti interpreti italiani ma non partenopei - e arriva al 1968 di Deep Down, tema di Ennio Morricone per il film Diabolik (altra maschera) di Mario Bava.
Estremi di un periodo che definì, è convinzione di Patton, «un approccio autentico alla musica pop italiana». «Non so granché di quell'Italia», confessa Mike. «Per quanto “vecchio”, vissi solo un paio degli anni 60. Tutto ciò che so è che nel mondo del pop fu praticata una magia musicale. In Italia sembra ci fosse una certa libertà per cantanti e autori, gli arrangiatori erano fondamentalmente i migliori tra i migliori compositori di musica per il cinema. Situazione che permise un certo fermento nell’ambito del formato pop, a cui furono applicate tendenze avanguardiste, tidbits orchestrali, modelli americani e tecniche worldmusic. Un approccio autenticamente unico al pop. Come non amare tutto questo?».
In Mondo cane non poteva mancare Morricone, ma colpisce il recupero di Deep Down quando il rock Usa celebra il Maestro soprattutto per i temi degli spaghetti Western. Springsteen e Metallica hanno vinto pure dei Grammy con le loro cover.
«Mi spiace che Springsteen abbia deturpato un compositore intoccabile come Ennio. Non ha senso. Non so cosa rispondere sull’inondazione di artisti americani che hanno reso tributo al Maestro, non ho niente a che vedere col fenomeno. Morricone ovviamente merita simili celebrazioni, ma io ritengo la sua opera “quasi” intoccabile.
Se si deve rendere un omaggio musicale al suo lavoro, lo si deve fare in modo intelligente e anche aggressivo. Con rispetto ma soprattutto in modo più importante sviluppando approcci unici. Non puoi rendere rendere migliore qualcosa di perfetto. Puoi solo riarrangiarlo e reinterpretarlo. Posso solo dire di aver fatto del mio meglio».
In Italia Mike ha trovato l'amore, uno dei tanti luoghi dove vivere e molti amici. Nei video che circolano su YouTube, registrati dal vivo al Paradiso di Amsterdam, la tromba di Roy Paci gli è accanto assieme all'orchestra. Ma questo non basta a spiegare lo sforzo di Mondo cane e il coraggio di un disco cantato interamente in italiano. La perplessità è solo il frutto di un antico vizio italiano chiamato provincialismo.
«Quel songwriting e quello stile italiano negli arrangiamenti oggi sono considerati incredibilmente importanti. Negli Stati Uniti, e non solo, c’è gente che rifà i classici italiani di quel periodo, la cui influenza è arrivata ben oltre i confini del vostro paese. Cosa mi ha attratto verso quel sound e quei tempi? Semplicemente il vivere in Italia. Le mie orecchie erano costantemente aperte. E mi innamorai di quei suoni intricati, quegli approcci audaci e quei densi e godibili arrangiamenti. Elementi che a me suonarono con il tono di un benvenuto, facendomi sentire uno del luogo e non uno straniero. Fu un periodo eccitante nella mia vita, in cui tante cose erano nuove: lingua, musica, gente. Oggi posso dire con certezza che gli italiani, in generale, sono stati decisivi nel raggiungimento della fiducia di cui avevo bisogno in quel delicato momento della mia vita».
Patton si confronta con il crooning audace di Fred Buscaglione (Che notte!, 1959) e Nicola Arigliano (20 km al giorno, 1964), poi con il confidenziale e persuasivo Fred Bongusto (Ore d'amore, 1967). Perché loro e non Sinatra, Dean Martin, Tony Bennett, Perry Como?
«Perché sento un più forte legame con quei guys. Ero molto più interessato a un crooning che mi fosse estraneo, opposto a quello "nativo". A volte, una prospettiva esotica ti aiuta a vedere le cose in modo completamente differente. E ti dà il coraggio necessario a completare un’avventura come questa. Può suonare strano, ma io mi sento infinitamente più a mio agio come crooner in una lingua che non sia la mia. Mi offre una maschera, mi infonde una certa fiducia. Adoro Frank, Dino, Tony Bennett, certo. Ma a volte, (ed ora, almeno per il momento) mi sento un po’ più a mio agio a sperimentare quel vocabolario musicale in un’altra lingua. Ed è un bellissimo lusso!».
Come accadde a Steven Brown dei Tuxedomoon, Patton si perde nelle canzoni di Luigi Tenco, dal vivo propone Lontano lontano, salvo riprendere sul disco Quello che conta, a firma Luciano Salce/Morricone, che il cantautore suicida al Sanremo del 1967 interpretò nel 1962 per il film La cuccagna. Influisce quel tragico destino sul morphing di Mike Patton?
«No, niente affatto. Ho scelto i pezzi solo su una base musicale. Certo, mentirei se non dicessi che quando ascolto o reinterpreto un grande come Luigi Tenco io non pensi a lui e alla sua vita. Sapere come andarono le cose si riflette sul modo in cui ascoltiamo la sua musica. Personalmente, la ascolto con molta più melanconia di quanta sia solito provare. Quanto si riflette sulla mia interpretazione? Ho abbastanza rispetto da lasciar sola la musica, da iniettare il mio succo dove è necessario ma non fino al punto di massacrare un’opera d’arte perfettamente costruita».
Dal 1964 Mike trae il giovane idolo pop Gianni Morandi di Ti offro da bere, dal 1965 L'uomo che non sapeva amare di Nico Fidenco. Al beat italiano rende omaggio trasfigurando Urlo Negro (1967), unico segno lasciato dai Blackmen nella scena dell'epoca. E finisce anche lui con lo specchiarsi nelle melodie senza tempo di Gino Paoli (Il cielo in una stanza, 1960, Senza fine, 1961). Come è arrivato a delineare una simile lista?
Mike rivela un'insospettabile "complice" dall'etere. «Ancora una volta, devo sottolineare quanto l’italian state of mind mi abbia messo così a mio agio da potermi permettere una simile pazzia… imparare il gergo del pop italiano, istruirmi sulla sua età d’oro... Sono canzoni che ho trovato, che ho ascoltato, che ho sentito di passaggio, mentre vivevo in Italia. Ho avuto ottimi consigli. Altre mi sono giunte per caso, come se i miei amici sapessero a cosa stessi pensando. Altre, infine, le ho ascoltate su 'Radio Italia Anni 60', la stazione dedicata agli oldies che scoprii quasi per sbaglio: mentre mi facevo delle cassette nel periodo in cui ero impegnato nell’apprendimento della lingua. Complicato, come lo è qualsiasi avventura».
L'accostamento tra evergreen ed evanescenti schegge di memoria non sorprende più del fatto che a misurarsi con simile repertorio sia un californiano diventato rockstar con il crossover dei Faith No More, poi transfuga attraverso mille altri progetti (Mr. Bungle, Fantomas, Tomahawk, Peeping Tom, Moonchild) e collaborazioni (Bjork, John Zorn, Melvins, Corleone, Dan The Automator tra gli altri), con l'obiettivo costante di rivoltare forme e stili come calzini.
«Non so e neanche mi interessa per cosa sono conosciuto. Faccio musica che a me fa stare bene. In questo caso, reinterpretando canzoni sensazionali e di grande ispirazione. Mi interessava solo passeggiare su una corda tesa tra il rifare quelle canzoni a modo mio, da una prospettiva 'altra', e il rispetto per il materiale originale. Un’impresa molto difficile».
Tra le canzoni di Mondo cane, ce n'è una che ama di più cantare o con cui le è piaciuto di più misurarsi?
«Le amo tutte. Hai dei bambini? Chi è il tuo preferito? Chi può rispondere a una simile domanda? I miei dischi sono come figli (dice Mike, ancora in italiano). E non esiste modo con cui io possa scegliere il mio preferito».
http://xl.repubblica.it/dettaglio/80146
di Paolo Gallori
Il cantante californiano si tuffa nella musica italiana degli anni 50 e 60, brodo primordiale del nostro pop: da Murolo a Morandi, da Paoli a Tenco, ai crooner Buscaglione e Bongusto... «Mi interessava solo passeggiare su una corda tesa tra il rifare quelle canzoni a modo mio e il rispetto per il materiale originale». Omaggio a Morricone: «Springsteen lo ha deturpato». A luglio dal vivo a Milano e Firenze
Fantomas strikes again... almeno nella musica. Capelli tirati all'indietro, baffetti in Dillinger style, abiti eleganti. È l'aspetto assunto da Mike Patton per tuffarsi nel "brodo primordiale" della canzone pop italiana: gli anni 50 e 60. Il disco è stato "testato" con concerti in location d'eccezione e sarà seguito da nuovi appuntamenti live. In Italia, il 27 luglio a Milano (Jazzin'festival, all'Arena Civica) e il 26 a Firenze (Fortezza da Basso). Stavolta l'incredibile cantante californiano, 42 anni e una voce baciata da un trasformismo degno di Gommaflex, riesce a celare anche la bellezza della musica dietro una maschera spaventosa. L'album si intitola Mondo cane. Come il film documentario di Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi che nel 1962 scioccò lo spettatore sbattendogli in faccia la crudeltà di cui è capace la società umana. Mai come in questo caso, è fondamentale conoscere la "versione di Mike".
«Certo, ho visto il film, chi non lo ha fatto?», dice Mike. «Ho scelto il titolo basandomi sulle reazioni che il film ricevette e perché affascinato dalla sua natura provocatoria. Ho sentito il dovere di presentare un simile repertorio musicale in circostanze che fossero una sfida alle intenzioni e ai risultati. Un titolo come Mondo cane era il modo perfetto di sollevare le giuste domande su un simile progetto, che potrebbe facilmente essere scambiato per la cafonata sperimentale di un "gringo"».
No, nessun arrogante "gringo" abita qui. Patton è un nomade. Incapace di resistere negli stessi panni, negli stessi suoni, nella stessa band e nello stesso paese oltre la soglia dell'abitudine. Mike spezza sul nascere le illusioni di chi continua ad associarlo solo ai Faith No More («Nuovo materiale con loro? Non adesso, forse mai») per parlare solo del miglior frutto del suo intimo rapporto con l'Italia. Mondo cane copre un arco temporale che va dal 1951 - Scalinatella di Roberto Murolo, che Mike canta in un napoletano decisamente migliore di quello tanti interpreti italiani ma non partenopei - e arriva al 1968 di Deep Down, tema di Ennio Morricone per il film Diabolik (altra maschera) di Mario Bava.
Estremi di un periodo che definì, è convinzione di Patton, «un approccio autentico alla musica pop italiana». «Non so granché di quell'Italia», confessa Mike. «Per quanto “vecchio”, vissi solo un paio degli anni 60. Tutto ciò che so è che nel mondo del pop fu praticata una magia musicale. In Italia sembra ci fosse una certa libertà per cantanti e autori, gli arrangiatori erano fondamentalmente i migliori tra i migliori compositori di musica per il cinema. Situazione che permise un certo fermento nell’ambito del formato pop, a cui furono applicate tendenze avanguardiste, tidbits orchestrali, modelli americani e tecniche worldmusic. Un approccio autenticamente unico al pop. Come non amare tutto questo?».
In Mondo cane non poteva mancare Morricone, ma colpisce il recupero di Deep Down quando il rock Usa celebra il Maestro soprattutto per i temi degli spaghetti Western. Springsteen e Metallica hanno vinto pure dei Grammy con le loro cover.
«Mi spiace che Springsteen abbia deturpato un compositore intoccabile come Ennio. Non ha senso. Non so cosa rispondere sull’inondazione di artisti americani che hanno reso tributo al Maestro, non ho niente a che vedere col fenomeno. Morricone ovviamente merita simili celebrazioni, ma io ritengo la sua opera “quasi” intoccabile.
Se si deve rendere un omaggio musicale al suo lavoro, lo si deve fare in modo intelligente e anche aggressivo. Con rispetto ma soprattutto in modo più importante sviluppando approcci unici. Non puoi rendere rendere migliore qualcosa di perfetto. Puoi solo riarrangiarlo e reinterpretarlo. Posso solo dire di aver fatto del mio meglio».
In Italia Mike ha trovato l'amore, uno dei tanti luoghi dove vivere e molti amici. Nei video che circolano su YouTube, registrati dal vivo al Paradiso di Amsterdam, la tromba di Roy Paci gli è accanto assieme all'orchestra. Ma questo non basta a spiegare lo sforzo di Mondo cane e il coraggio di un disco cantato interamente in italiano. La perplessità è solo il frutto di un antico vizio italiano chiamato provincialismo.
«Quel songwriting e quello stile italiano negli arrangiamenti oggi sono considerati incredibilmente importanti. Negli Stati Uniti, e non solo, c’è gente che rifà i classici italiani di quel periodo, la cui influenza è arrivata ben oltre i confini del vostro paese. Cosa mi ha attratto verso quel sound e quei tempi? Semplicemente il vivere in Italia. Le mie orecchie erano costantemente aperte. E mi innamorai di quei suoni intricati, quegli approcci audaci e quei densi e godibili arrangiamenti. Elementi che a me suonarono con il tono di un benvenuto, facendomi sentire uno del luogo e non uno straniero. Fu un periodo eccitante nella mia vita, in cui tante cose erano nuove: lingua, musica, gente. Oggi posso dire con certezza che gli italiani, in generale, sono stati decisivi nel raggiungimento della fiducia di cui avevo bisogno in quel delicato momento della mia vita».
Patton si confronta con il crooning audace di Fred Buscaglione (Che notte!, 1959) e Nicola Arigliano (20 km al giorno, 1964), poi con il confidenziale e persuasivo Fred Bongusto (Ore d'amore, 1967). Perché loro e non Sinatra, Dean Martin, Tony Bennett, Perry Como?
«Perché sento un più forte legame con quei guys. Ero molto più interessato a un crooning che mi fosse estraneo, opposto a quello "nativo". A volte, una prospettiva esotica ti aiuta a vedere le cose in modo completamente differente. E ti dà il coraggio necessario a completare un’avventura come questa. Può suonare strano, ma io mi sento infinitamente più a mio agio come crooner in una lingua che non sia la mia. Mi offre una maschera, mi infonde una certa fiducia. Adoro Frank, Dino, Tony Bennett, certo. Ma a volte, (ed ora, almeno per il momento) mi sento un po’ più a mio agio a sperimentare quel vocabolario musicale in un’altra lingua. Ed è un bellissimo lusso!».
Come accadde a Steven Brown dei Tuxedomoon, Patton si perde nelle canzoni di Luigi Tenco, dal vivo propone Lontano lontano, salvo riprendere sul disco Quello che conta, a firma Luciano Salce/Morricone, che il cantautore suicida al Sanremo del 1967 interpretò nel 1962 per il film La cuccagna. Influisce quel tragico destino sul morphing di Mike Patton?
«No, niente affatto. Ho scelto i pezzi solo su una base musicale. Certo, mentirei se non dicessi che quando ascolto o reinterpreto un grande come Luigi Tenco io non pensi a lui e alla sua vita. Sapere come andarono le cose si riflette sul modo in cui ascoltiamo la sua musica. Personalmente, la ascolto con molta più melanconia di quanta sia solito provare. Quanto si riflette sulla mia interpretazione? Ho abbastanza rispetto da lasciar sola la musica, da iniettare il mio succo dove è necessario ma non fino al punto di massacrare un’opera d’arte perfettamente costruita».
Dal 1964 Mike trae il giovane idolo pop Gianni Morandi di Ti offro da bere, dal 1965 L'uomo che non sapeva amare di Nico Fidenco. Al beat italiano rende omaggio trasfigurando Urlo Negro (1967), unico segno lasciato dai Blackmen nella scena dell'epoca. E finisce anche lui con lo specchiarsi nelle melodie senza tempo di Gino Paoli (Il cielo in una stanza, 1960, Senza fine, 1961). Come è arrivato a delineare una simile lista?
Mike rivela un'insospettabile "complice" dall'etere. «Ancora una volta, devo sottolineare quanto l’italian state of mind mi abbia messo così a mio agio da potermi permettere una simile pazzia… imparare il gergo del pop italiano, istruirmi sulla sua età d’oro... Sono canzoni che ho trovato, che ho ascoltato, che ho sentito di passaggio, mentre vivevo in Italia. Ho avuto ottimi consigli. Altre mi sono giunte per caso, come se i miei amici sapessero a cosa stessi pensando. Altre, infine, le ho ascoltate su 'Radio Italia Anni 60', la stazione dedicata agli oldies che scoprii quasi per sbaglio: mentre mi facevo delle cassette nel periodo in cui ero impegnato nell’apprendimento della lingua. Complicato, come lo è qualsiasi avventura».
L'accostamento tra evergreen ed evanescenti schegge di memoria non sorprende più del fatto che a misurarsi con simile repertorio sia un californiano diventato rockstar con il crossover dei Faith No More, poi transfuga attraverso mille altri progetti (Mr. Bungle, Fantomas, Tomahawk, Peeping Tom, Moonchild) e collaborazioni (Bjork, John Zorn, Melvins, Corleone, Dan The Automator tra gli altri), con l'obiettivo costante di rivoltare forme e stili come calzini.
«Non so e neanche mi interessa per cosa sono conosciuto. Faccio musica che a me fa stare bene. In questo caso, reinterpretando canzoni sensazionali e di grande ispirazione. Mi interessava solo passeggiare su una corda tesa tra il rifare quelle canzoni a modo mio, da una prospettiva 'altra', e il rispetto per il materiale originale. Un’impresa molto difficile».
Tra le canzoni di Mondo cane, ce n'è una che ama di più cantare o con cui le è piaciuto di più misurarsi?
«Le amo tutte. Hai dei bambini? Chi è il tuo preferito? Chi può rispondere a una simile domanda? I miei dischi sono come figli (dice Mike, ancora in italiano). E non esiste modo con cui io possa scegliere il mio preferito».
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Re: Interviste agli artisti
Max Casacci - Subsonica
Un vulcano all'ombra della Mole
Max Casacci è tra i personaggi più attivi della scena italiana attuale: chitarrista, produttore e fondatore dei Subsonica (dopo aver contribuito alla nascita e alla crescita degli Africa Unite), compositore e autore di buona parte dei testi e delle musiche del gruppo, titolare fino a poco tempo fa dell'etichetta discografica Casasonica e direttore del Traffic Free Festival a Torino. Non solo. A confermare un'attitudine politicamente profonda e significativa, attualmente è impegnato insieme ad associazioni antimafia, ambientaliste, giovani universitari, dj e gestori di spazi e locali nel progetto Torino Sistema Solare (www.torinosistemasolare.it), un fronte spontaneo molto attivo nel mondo della notte e nel rinnovamento culturale in città.
L'intervista, slegata dalla consueta logica promozionale - uscita del disco-tour-progetti futuri - è una confessione appassionata di racconti, verità e opinioni. All'insegna di una sempre più inedita propensione naturale all'autenticità e alla trasparenza.
Ciao Max, grazie per la disponibilità e per il tempo che spenderai per OndaRock.
Ci dai qualche anticipazione sul sesto capitolo dell'avventura Subsonica? Che direzione sta prendendo? Domanda non banale, se si considera il vostro percorso: dopo la svolta rock dichiarata di "Terrestre", con "L'eclissi" siete tornati a una produzione fortemente electro.
"Non siete riusciti a bissare Microchip Emozionale", cantate: al di là dell'autoironia, che cosa vi aspettate - da un versante squisitamente artistico - da questo disco?
Quello che è lecito aspettarsi dai Subsonica a quattordici anni dall'inizio della storia è un album in grado di condensare la magmaticità sotterranea dell'elettronica più recente e la ventata di eclettismo che attraversa molte interessanti produzioni "indie", in una forma solida di scrittura. Da noi, come del resto dalla maggior parte dei gruppi italiani, si pretendono le canzoni. Nel nostro caso canzoni che sfuggano ai cliché di genere ma che siano pronte per essere ballate sotto un palco da migliaia di persone. Che se ci pensi è una condizione stilisticamente un po' più vincolante rispetto al suonare in un piccolo club guardandosi la punta delle scarpe.
Al momento ci sono più di cinquanta idee frutto di un'eruzione incontrollata, che aspettano di essere valutate, abbinate tra loro, e forse anche un po' capite. Poi passeremo ai testi e alla scelta degli strumenti e delle tinte necessarie per amalgamare il tutto. La scrittura a più mani necessita di una fase di decantazione e ci troviamo proprio a quel punto. Di certo c'è la volontà di dare più aria rispetto al tono cupo, (seppur profetico) della precedente eclissi.
Nonostante la maturazione e i cambi di direzione, io credo che nel primo disco ci sia già tutta la vostra personalissima cifra, la vostra "anomalia". Miscelando con sapienza suoni e suggestioni dal sapore moderno e internazionale, in bilico continuo tra un gusto vintage ed esplosioni da dancefloor, avete concretamente identificato un genere, riempito un vuoto. Ti riconosci in questa considerazione? Quanto di questa "anomalia" è frutto di un'idea precisa? Quanto di quello che siete adesso era nella tua testa, quando hai gettato le basi del progetto, e quanto è il risultato di una dimensione creativa di band?
Di preciso all'inizio non c'era proprio nulla. Nemmeno l'idea che dovessimo essere un gruppo vero, cioè con una line-up da palco e tutto il resto. Avevo abbandonato con un po' di delusione gli Africa Unite a un passo dal contratto con la Polygram, e non avevo tanto voglia di band, quanto invece di sperimentazione in studio, per questo avevo contattato Samuel, un cantante con tecnica, voglia di mettersi in gioco e sufficiente curiosità per lasciarsi guidare. Ciò che è successo da lì in poi è stato il frutto della somma tra necessità espressive di cinque musicisti, appassionati alle rivoluzioni sonore in corso negli anni 90. Sotto quest'aspetto la mia precedente attività di produttore si è rivelata determinante per amalgamare, almeno in senso musicale, le personalità.
Da soli, del resto, non credo saremmo andati molto lontano. Io sarei finito in pieno cortocircuito artistico a produrre materiale sperimentale per me stesso. Samuel e Boosta, probabilmente, avrebbero accorciato le tappe alla corte di qualche discografico dispensatore di fama e successo (esistevano ancora!) per poi finire bruciati nell'arco di una stagione, come è successo a quasi tutti i loro coetanei. Ninja avrebbe smesso di suonare per mettere a frutto la laurea da ingegnere informatico, come del resto stava per fare prima di concedere alla musica dei nascenti Subsonica un'ultima chance tra un tour in Brasile con la Vanoni e qualche turno poco entusiasmante in sala di registrazione. Il vecchio bassista Pierfunk, beh, lui ha scelto di non crederci del tutto, salvo poi tentare di rientrare anni dopo dalla porta sul retro con i Motel Connection.
All'epoca del primo "Subsonica", cioè nel '96, bastava uscire la notte, entrare in uno dei tanti club a Torino che proprio in quegli anni incominciavano a nascere, tendere un orecchio e restare sistematicamente folgorati da qualche cosa di innovativo. Per poi tornare in studio il giorno dopo con la voglia di rifare tutto da capo. Nessuna nostalgia, per carità ma, in effetti, in quegli anni la musica era entusiasmante e centrale nella vita di chiunque. E non parlo solo di musicisti. Sono affezionatissimo a "Subsonica" e a tutte le sue ingenuità, ma tentare di rifare per cinque altre volte quell'album, così figlio del proprio tempo, sarebbe stato un errore.
La sensazione che si ha dall'esterno, per chi vi segue, è quella di una band autentica, vera, passionale. Si legge la voglia di suonare insieme, ma anche la presenza di problemi, discussioni, incomprensioni. È stato ed è ancora difficile tenere insieme la macchina? Ci sono stati momenti delicati, in questi anni?
Dai Pooh agli U2, credo che per chi suona insieme da parecchio tempo, la questione fondamentale per potersi proporre con dignità riguardi la ricerca di nuovi stimoli e significati. Oggi, 2010: quali sono i tuoi stimoli e quelli dei Subsonica?
Il percorso, sotto molti aspetti impagabile - di quelli che valgono una vita intera - è stato talvolta difficile e lacerante. La nostra storia ha raggiunto rapidamente vette che nessuno di noi avrebbe mai ipotizzato. Le altezze però si trasformano facilmente in vertigini: come la paura di fare mosse sbagliate o di non essere in grado di gestire adeguatamente quello che succede, unitamente alle dinamiche centrifughe tipiche di ogni band - i vari percorsi solisti, l'intrusione di adulatori professionisti attratti dal successo che finiscono per dopare l'autenticità delle relazioni, il rapporto con radio, tv, discografici, sponsor, propinatori di ogni sorta di distrazione ai singoli e tutto il repertorio di luoghi comuni presenti in ogni biografia rock-pop - a me personalmente hanno tolto il sonno davvero molte volte. Troppe.
Devo però dire che esiste un legame profondo che ci unisce. Ed è un legame incomprensibile al mondo esterno. Tutte le persone che hanno provato a fare leva sulle diversità o momentanee spaccature, allo scopo di manovrare le nostre scelte, a sorpresa si sono trovate bruciate e fuori dai giochi. Gli stimoli primari sono legati all'armonia e al senso di benessere che si crea improvvisamente quando ci ritroviamo a fare quello che a tutti noi riesce meglio nella vita, cioè musica. Al netto di tutte le cazzate.
Sono sempre stato piacevolmente sorpreso dalla vostra (e tua) capacità di mantenere contatti diretti con il pubblico che vi segue, nonostante la sua esponenziale crescita avvenuta in questi anni. Siete stati infatti tra i primi a utilizzare il web come interfaccia immediata con i navigatori, dimostrando un'attenzione privilegiata a chi sta dall'altra parte. Con uno spettro così ampio di gente che vi ascolta (Frankie Hi Nrg diceva: "Dobbiamo prenderci tutta la riviera e qualche centro sociale"), e che vi dice di tutto, e che commenta tutto, nel bene e nel male, non è complesso e forse inutile dover rispondere a tutti o quasi della vostra identità e delle vostre scelte?
Se per mantenere il contatto con le persone che ci seguono dovessimo scegliere tra l'artificialità di una trasmissione televisiva, la lobotomia dei canali radiofonici, le volgari semplificazioni di molta stampa o il confronto, talvolta faticoso e ingrato, con chi sul web è abituato a spaccare il capello (e non solo quello) in quattro per ogni riga che scrivi, preferiremmo comunque il secondo. Detto questo abbiamo talvolta, probabilmente, esagerato nel tentativo di interagire/ spiegare/ raccontare minuziosamente nei minimi dettagli, così come nell'esporre posizioni ben oltre i confini del nostro ruolo di musicisti. Tuttavia, il numero crescente di contatti, che superano ormai le centomila presenze solo sul più recente Facebook, tende a dimostrarci che le persone finiscono per affezionarsi a chi si mette in gioco. Non solo con gli strumenti in mano. Anche quando non condividono tutto quello che pensi.
Max Casacci - SubsonicaI Subsonica sono stati tra gli alfieri della "gloriosa" stagione indipendente italiana anni 90, che faceva capo a Mescal, al Cpi ecc. Che cosa ha permesso quell'esperienza? Oggi il riferimento sono realtà come La Tempesta, significative di uno spirito diverso ma soprattutto di una progressiva delocalizzazione che rivoluziona il concetto di "scena". Che cosa è veramente cambiato in questi famigerati anni Zero nell'indie italiano? E ha ancora senso considerare la musica legata a un territorio preciso (come può essere stata la Milano degli anni 80 e 90, o la vostra Torino)? Nel tuo caso, com'è cambiata la Torino musicale in questi anni?
La Mescal, al di là dei problemi che quasi tutti gli artisti hanno avuto con Valerio Soave, oltre ad avere rappresentato una grande opportunità per molti di noi, è stata il simbolo di una bella stagione. Tuttavia esperienze come quella o come il Consorzio non sarebbero ripetibili oggi, almeno non in quei termini. La disaffezione all'acquisto degli album ha spinto tutto il settore musicale verso differenti forme di profitto: gadget, cellulari suonerie, concorsi televisivi, per i quali il rinnovamento dei linguaggi musicali non è più indispensabile. Il fatto che il direttore di una delle più grandi discografiche abbandoni oggi il proprio posto, per mettersi a lavorare in un talent show, dice più di qualsiasi altra considerazione. Le indie label degli anni 90 utilizzavano risorse major per mettere i propri artisti in grado di competere alle stesse condizioni di visibilità, con la musica di mercato. Valeva per noi, Cristina Donà o gli Afterhours, ma, per capirci, ad altri livelli anche per un Aphex Twin, che senza i costosi video di Chris Cunningham, non avrebbe sviluppato la potenza rivoluzionaria che conosciamo.
Oggi chi fa musica lo fa inevitabilmente per urgenza espressiva, per necessità. Sta tornando, più o meno tutto come nei primi anni Ottanta, quando la musica era semplice questione di "vita o di morte". E infatti i locali ricominciano a riempirsi di live. Dopo un decennio piuttosto trascurabile torniamo anche ad ascoltare dei buoni album. Devo dire che non ho amato per niente gli anni Zero e la generazione del "tutto mi è dovuto". Mentre mi trovo perfettamente a mio agio con i musicisti ventenni nei quali riconosco slanci, generosità e coraggio spesso sconosciuti ai fratelli maggiori.
A Torino la rigenerazione della scena in corso è molto interessante. Si sviluppa tutto più o meno intorno a tre circuiti. Nel quartiere multietnico di San Salvario, dove la boheme studentesca cittadina trova domicilio, è nata una curiosa forma di canzone d'autore. Tra i protagonisti : Matteo Castellano, Deian, Vittorio Cane e altri autori visionari e disincantati le cui canzoni rimbalzano tra myspace e siti come www.torinosistemasolare.it (dove è possibile scaricare gratuitamente la compilation "San Salvario da mezzanotte alle quattro") o si ascoltano nei piccoli locali in stile Greenwich Village, della zona. L'alternative rock (tanto per usare un'espressione iTunes) è invece di casa allo Spazio 211: vero covo underground di periferia, che ha band come DiD, Stearica, Movie Star Junkyes, Discodrive come portabandiera. Gli stessi nomi sono presenti nei programmi dei locali di mezza Europa. Sovente anche negli States.
Nell'elettronica si muovono cose altrettanto interessanti. Dietro nomi enigmatici come "Vaghe Stelle" "The Licious", "Postal M@rket", "X-luve", "Passenger", "Abstract", si nascondono giovanissimi produttori a proprio agio con l'elettronica sperimentale ma contemporaneamente in grado di produrre sonorità dancefloor. Il Puddhu ai Murazzi e la serata "China Surprise" sono l'epicentro di questa piccola scuola. Gli LN Ripley poi, con il nostro Ninja ai tamburi, (a detta di tutto il circuito: la migliore drum'n bass live band del pianeta) ed Ezra produttore in bilico tra meticciato ritmico e pop obliquo, chiudono il cerchio di una scena viva e intensa come da anni non succedeva. Qualcosa mi porta a pensare che, anche se Torino le cose succedono con leggero anticipo, la stessa cosa stia capitando un po' ovunque.
Da cinque anni ormai siete sotto contratto con una major. Oggi si sente di tutto e di più sullo stato di salute delle multinazionali della musica. Come consideri la crisi del mercato discografico (italiano e non), e quanto ha pesato sulla tua esperienza da musicista? Non credi che, più che l'avvento di internet e del file audio compresso, a causarla sia stata la risposta impacciata e timorosa a queste nuove tecnologie? Quali possibilità ci sono per il futuro?
Oltre all'intramontabile e insostituibile live, le possibilità per il futuro le abbiamo quotidianamente sotto gli occhi mentre apriamo un laptop e aggiorniamo software sempre più completi per suono, grafica, fotografia, montaggio di immagini.. E' lecito aspettarsi che tra i cosiddetti "nativi digitali", si sviluppi a breve una scena "rinascimentale", fatta di artisti in grado di utilizzare simultaneamente tecniche espressive differenti. Il concetto di avanguardia ha sempre avuto a che fare con la distruzione dei confini disciplinari, e spazi come YouTube, ma forse ancora di più i nuovi"contenitori" come iPad o i cellulari, saranno talmente affamati di "contenuti" multimediali da fare presto dimenticare la necessità della discografia tradizionale. E chi meglio dei ragazzi che crescono maneggiando quotidianamente le infinite possibilità creative del proprio pc e interfacciati in tempo reale con tutte le piccole rivoluzioni sotterranee, dovrà mettere a frutto queste possibilità? Ovviamente tutto questo succederà in relazione al clima culturale. Ragione per cui, invece di interrogarci se piangere o meno sulle macerie di un circuito ormai morto, dovremmo concentrarci sulla battaglia culturale generale, che è quella da vincere. E non la vinceranno certo i candidati ministri, gli assessori, i salotti, né la maggior parte delle redazioni per come le conosciamo oggi. Sono andato fuori tema. Lo so.
È di pochi giorni la notizia della vostra partecipazione allo Sziget Festival. Il palco è prestigiosissimo, e avrete di fronte davvero un campione preciso di pubblico mondiale. Avete qualche idea particolare e diversa per quella data, o la ricetta sarà la stessa che vi ha portato in giro per l'Italia? Come sono andate le altre recenti esperienze all'estero? Credi di più in una musica italiana (di qualità) da esportazione, o in una musica italiana in lingua inglese capace di competere a livello europeo e mondiale?
E' una bella domanda, la seconda intendo. Per la prima, credo che riproporremo il live già rodato nel precedente giro dei locali europei (Londra, Bruxelles, Madrid, Barcellona, Ibiza), cioè un concerto centrato sul nostro lato più dance, che è tra l'altro un elemento associato all'italianità. Inoltre, sono poche le band sulla scena internazionale che mescolando strumentazione rock con attitudine dance risultano credibili e coinvolgenti on stage, a parte Soulwax, Lcd Soundsystem, Who Made Who e non molti altri. Quindi ricerchiamo lì il nostro spazio, per evitare di essere considerati i soliti italiani cloni di qualcos'altro.
Per quanto riguarda la musica italiana all'estero, direi che da un lato andiamo incontro a un'unificazione europea culturale e linguistica, quindi prima o poi anche all'Italia potrebbe toccare la considerazione (come Belgio, Germania o paesi scandinavi), di luogo a piena dignità rock. I gruppi di certo non mancano. Dall'altro il problema della lingua troppo spesso lo poniamo noi prima di chiunque altro. L'italiano è una lingua cool, certamente più dello spagnolo e almeno al pari del francese. Sta alla qualità del sound, alla personalità e al carattere di chi scrive in italiano, sapersi smarcare dai cliché della musica tricolore. Dal mio punto di vista, prima ancora dei Subsonica avevo già fatto diversi tour in giro per il mondo suonando con Africa Unite, o lavorando al mixer con la prima cellula dei Mau Mau. Si cantava in italiano, quando non in piemontese, senza il minimo problema da parte del pubblico.
Casasonica.it è ancora attivo, ma non più aggiornato da due anni. Che cosa è successo con le band sotto contratto, se puoi raccontarcelo? E come ti senti di giudicare questa esperienza discografica: rifaresti tutto? Qualcosa è andato storto, è stato un fallimento oppure alcune contingenze hanno portato naturalmente a questi esiti? Oggi che cosa significa Casasonica?
Casasonica etichetta, nei fatti, non esiste più. Può essere interessante analizzare gli errori, perché ci sono stati e le caratteristiche positive dell'esperienza, perché c'è qualche cosa di significativo anche lì. Innanzi tutto il mio errore fondamentale: non aver preteso da band alla prima uscita il sacrificio e la pazienza necessari ad affrontare la gavetta. Ovvero quella fase nella quale spendi tutte le tue energie senza nessuna certezza, che per me è durata almeno 15 anni, prima che le cose andassero in un altro modo. Mi trovavo imbarazzato nell'insistere con le band sul fatto avrebbero dovuto suonare tanto e ovunque, con o senza impianti anche per cento euro e dormire in furgone se necessario. Mi sentivo a disagio perché nel frattempo stavo riempiendo i palazzetti, dormendo in comodi hotel e viaggiando su un camper con playstation e Dvd. Da lì il tentativo di piazzare i loro concerti solo a determinate condizioni, affittando mezzi di trasporto e alloggiamenti, che ha provocato una notevole emorragia di risorse. Una band come i Petrol era arrivata al punto di pretendere i backliner fin dalla prima data.
Altro errore di valutazione: non avere capito, per tempo, che gli anni 90 erano finiti da un pezzo e che la quaresima degli anni Zero stava per raggiungere il suo picco di desolazione: poco pubblico ai concerti e zero interesse per le nuove band. Insomma, non che pretendessimo di vendere gli album, ma che in tempi relativamente brevi qualche band avrebbe incominciato a spaccare nei live, ce lo saremmo aspettati. La cosa certamente più deleteria è stata la sovrapposizione con Casasonica/management voluta dal manager Alessandro Chiapello, decisamente più interessato alla gestione di artisti già affermati come Afterhours e Baustelle prima e Niccolò Fabi e Arisa poi (e a quel punto ho capito che non c'era più storia). In pratica, il livello più underground della factory/etichetta (quello che a me interessava) produceva album, realizzava laboratori di comunicazione come newsonica, allevava artisti visivi e sperimentava forme di comunicazione via web, creava l'habitat per la formazione di band trasversali come LnRipley, album come "Gatto Ciliegia" e "Robertina" etc. E il livello più manageriale ignorava il tutto per dedicarsi unicamente a esperienze di più gratificante visibilità. È tuttora in corso un confronto piuttosto acceso, tra me e Chiapello, per capire come portare a conclusione tutta l'esperienza.
Max Casacci - SubsonicaSei stato ideatore e realizzatore anche di un'altra esperienza fondamentale per la città di Torino: il Traffic Free Festival. Che bilancio dai, dopo sei anni dal primo evento? Penso che in Italia il Traffic possa considerarsi un evento unico, a livello di produzione e di offerta. È questa la strada da seguire per la musica live in Italia? Qual è la ricetta per poterlo esportare anche in altri luoghi della penisola?
La ricetta se mai esiste, consiste nell'interrogarsi a fondo sul significato di festival (vogliamo chiamarlo rock?) in anni come questi. Interrogarsi soprattutto sulla differenza tra un semplice avvicendamento, più o meno variegato, di band su un palco, che sarebbe più opportuno definire rassegna, e la necessaria "dimensione" di un festival. Elementi come la totale gratuità, la ricerca di linee guida sulle quali costruire e motivare le decisioni artistiche, la volontà di sviscerare in chiave multi-disciplinare tutto quello che la musica si porta appresso: mediante il cinema, la comunicazione grafica e visiva, il clash con la letteratura tendono a restituire all'"evento", un ruolo più completo, appagante. Vogliamo sporcarci le mani con la dietrologia? Ok :"Spirituale".
Per quanto riguarda l'Italia, quello che ti posso dire è che un discorso come questo portato al tavolo di una qualsiasi amministrazione culturale produce immediatamente irritazione se non sbadigli. Qui a Torino, l'esperimento è stato tentato fondamentalmente perché sono stato disposto a giocarmi la faccia accettando un'eventuale crocifissione. Al suo posto ci sono stati invece i risultati: di numeri, di feedback internazionali, di promozione della città e della regione in termini di immagine, e della considerazione culturale solitamente negata ai festival giovanili. Nonostante l'investimento, nettamente inferiore a quello di qualsiasi altro festival di uguali dimensioni, la magnitudo del Traffic ha proporzioni paragonabili ai più grandi e mega sponsorizzati eventi della penisola.
Non hai mai nascosto il tuo interesse vivo e appassionato per l'impegno civile, attraverso i testi, il palco e il web. Con i Subsonica, avete perorato la causa di molte associazioni e iniziative davvero toste, recentemente Nonuke, Global Zero... Credi che il musicista/artista sia uno degli ultimi comunicatori politici e sociali rimasti? Anche in questo, l'esperienza di Obama (che ha avuto l'appoggio di buonissima parte del mondo artistico americano) ci ha insegnato o ci deve insegnare qualcosa?
Ho di recente conosciuto Trevor Fitzgibbon, cioè l'inventore di Move on: il movimento da cinque milioni di voti che ha prodotto la vittoria di Obama alle primarie prima, e alla Casa Bianca poi. E ho capito che se un rockettaro di Seattle, appassionato di cause civili, forte della sensibilità di carattere empatico che l'esperienza della musica ti fornisce, riesce a fare quello che a fatto - e inoltre con la campagna "global zero" sul disarmo nucleare mondiale responsabile dei più recenti accordi Usa-Russia continua a fare - molte cose sono possibili. Trevor è venuto in Casasonica dopo una conferenza torinese su attivismo e social network, perché aveva sentito parlare dei Subsonica e del loro impegno, ma soprattutto per via di www.torinosistemasolare.it , di cui sono un responsabile. Incuriosito da un clip ("Mafia spa") realizzato in collaborazione con Libera sul rapporto tra mafia e consumo di cocaina, ha voluto capire che tipo di trasversalità ci fosse dietro e come si muovesse questa strana rete cittadina autogestita. Una rete formata da associazioni studentesche, musicisti, luoghi, della notte, associazioni antimafia, artisti visivi etc. e impegnati a riprogettare la città. Ci ha riempiti di complimenti e si è portato via un bel po' di materiale, oltre a qualche cd dei Subsonica.
Questa gratificazione (decisamente importante) ci insegna che le cose vanno semplicemente fatte, che non bisogna perdersi solo dietro a chiacchiere e fritture dell'aria e che soprattutto non bisogna tanto aspettare la politica, quanto anticiparla, sensibilizzarla, pilotarla. Magari attraverso piccole, quotidiane utopie territoriali, capaci di riprogrammare obiettivi e senso di appartenenza. La musica, non solo i suoi protagonisti ma anche e soprattutto i suoi luoghi, possono davvero molto più di quanto pensiamo.
Sei una persona in prima linea per quanto riguarda le politiche culturali della tua città, per i tuoi progetti credo tu abbia tenuto e tenga relazioni con la politica e gli ambienti decisionali. Se fossi tu ad avere in mano le carte da firmare per poter decidere, quali provvedimenti urgenti prenderesti oggi per la musica?
Farei una cosa impensabile, radicale, estremamente rivoluzionaria, che nessuno (nemmeno Veltroni, con il suo ventilato programma per la musica) ha mai pensato di fare. Parlerei con i musicisti. Con quelli veri però, non con chi come me ha già una professione, né con chi imbraccia uno strumento per la prima volta e ha già a disposizione le mille rassegne per gruppi emergenti, cioè tutto ciò che le amministrazioni riescono a proporre.
Parlerei con chi sta tentando di fare della musica la propria vita e magari necessita di cose semplici e realizzabili come un ufficio sponsor del proprio comune che si sbatta per procurare un furgone, o uno spazio dove accedere a servizi di consulenza legale per affrontare i primi contratti senza la paura di accettare patti con diavolo. A livello nazionale sarebbe certamente necessaria una semplificazione fiscale e burocratica per non doversi impelagare tra società e commercialisti prima ancora aver capito se la tua musica potrebbe diventare una reale opportunità di lavoro.
Domanda finale di rito. Che cosa gira almeno una volta al giorno nel tuo iPod-Pc-lettore cd-giradischi?
Musica strumentale, generalmente ambient, da Brian Eno a Murcof, ma anche astrazioni ritmiche come Burial o Autechre. Forse perché spesso mi occupo di canzoni sento il bisogno di decongestionare un po' il tutto.
http://www.ondarock.it/interviste/subsonica.htm
Un vulcano all'ombra della Mole
Max Casacci è tra i personaggi più attivi della scena italiana attuale: chitarrista, produttore e fondatore dei Subsonica (dopo aver contribuito alla nascita e alla crescita degli Africa Unite), compositore e autore di buona parte dei testi e delle musiche del gruppo, titolare fino a poco tempo fa dell'etichetta discografica Casasonica e direttore del Traffic Free Festival a Torino. Non solo. A confermare un'attitudine politicamente profonda e significativa, attualmente è impegnato insieme ad associazioni antimafia, ambientaliste, giovani universitari, dj e gestori di spazi e locali nel progetto Torino Sistema Solare (www.torinosistemasolare.it), un fronte spontaneo molto attivo nel mondo della notte e nel rinnovamento culturale in città.
L'intervista, slegata dalla consueta logica promozionale - uscita del disco-tour-progetti futuri - è una confessione appassionata di racconti, verità e opinioni. All'insegna di una sempre più inedita propensione naturale all'autenticità e alla trasparenza.
Ciao Max, grazie per la disponibilità e per il tempo che spenderai per OndaRock.
Ci dai qualche anticipazione sul sesto capitolo dell'avventura Subsonica? Che direzione sta prendendo? Domanda non banale, se si considera il vostro percorso: dopo la svolta rock dichiarata di "Terrestre", con "L'eclissi" siete tornati a una produzione fortemente electro.
"Non siete riusciti a bissare Microchip Emozionale", cantate: al di là dell'autoironia, che cosa vi aspettate - da un versante squisitamente artistico - da questo disco?
Quello che è lecito aspettarsi dai Subsonica a quattordici anni dall'inizio della storia è un album in grado di condensare la magmaticità sotterranea dell'elettronica più recente e la ventata di eclettismo che attraversa molte interessanti produzioni "indie", in una forma solida di scrittura. Da noi, come del resto dalla maggior parte dei gruppi italiani, si pretendono le canzoni. Nel nostro caso canzoni che sfuggano ai cliché di genere ma che siano pronte per essere ballate sotto un palco da migliaia di persone. Che se ci pensi è una condizione stilisticamente un po' più vincolante rispetto al suonare in un piccolo club guardandosi la punta delle scarpe.
Al momento ci sono più di cinquanta idee frutto di un'eruzione incontrollata, che aspettano di essere valutate, abbinate tra loro, e forse anche un po' capite. Poi passeremo ai testi e alla scelta degli strumenti e delle tinte necessarie per amalgamare il tutto. La scrittura a più mani necessita di una fase di decantazione e ci troviamo proprio a quel punto. Di certo c'è la volontà di dare più aria rispetto al tono cupo, (seppur profetico) della precedente eclissi.
Nonostante la maturazione e i cambi di direzione, io credo che nel primo disco ci sia già tutta la vostra personalissima cifra, la vostra "anomalia". Miscelando con sapienza suoni e suggestioni dal sapore moderno e internazionale, in bilico continuo tra un gusto vintage ed esplosioni da dancefloor, avete concretamente identificato un genere, riempito un vuoto. Ti riconosci in questa considerazione? Quanto di questa "anomalia" è frutto di un'idea precisa? Quanto di quello che siete adesso era nella tua testa, quando hai gettato le basi del progetto, e quanto è il risultato di una dimensione creativa di band?
Di preciso all'inizio non c'era proprio nulla. Nemmeno l'idea che dovessimo essere un gruppo vero, cioè con una line-up da palco e tutto il resto. Avevo abbandonato con un po' di delusione gli Africa Unite a un passo dal contratto con la Polygram, e non avevo tanto voglia di band, quanto invece di sperimentazione in studio, per questo avevo contattato Samuel, un cantante con tecnica, voglia di mettersi in gioco e sufficiente curiosità per lasciarsi guidare. Ciò che è successo da lì in poi è stato il frutto della somma tra necessità espressive di cinque musicisti, appassionati alle rivoluzioni sonore in corso negli anni 90. Sotto quest'aspetto la mia precedente attività di produttore si è rivelata determinante per amalgamare, almeno in senso musicale, le personalità.
Da soli, del resto, non credo saremmo andati molto lontano. Io sarei finito in pieno cortocircuito artistico a produrre materiale sperimentale per me stesso. Samuel e Boosta, probabilmente, avrebbero accorciato le tappe alla corte di qualche discografico dispensatore di fama e successo (esistevano ancora!) per poi finire bruciati nell'arco di una stagione, come è successo a quasi tutti i loro coetanei. Ninja avrebbe smesso di suonare per mettere a frutto la laurea da ingegnere informatico, come del resto stava per fare prima di concedere alla musica dei nascenti Subsonica un'ultima chance tra un tour in Brasile con la Vanoni e qualche turno poco entusiasmante in sala di registrazione. Il vecchio bassista Pierfunk, beh, lui ha scelto di non crederci del tutto, salvo poi tentare di rientrare anni dopo dalla porta sul retro con i Motel Connection.
All'epoca del primo "Subsonica", cioè nel '96, bastava uscire la notte, entrare in uno dei tanti club a Torino che proprio in quegli anni incominciavano a nascere, tendere un orecchio e restare sistematicamente folgorati da qualche cosa di innovativo. Per poi tornare in studio il giorno dopo con la voglia di rifare tutto da capo. Nessuna nostalgia, per carità ma, in effetti, in quegli anni la musica era entusiasmante e centrale nella vita di chiunque. E non parlo solo di musicisti. Sono affezionatissimo a "Subsonica" e a tutte le sue ingenuità, ma tentare di rifare per cinque altre volte quell'album, così figlio del proprio tempo, sarebbe stato un errore.
La sensazione che si ha dall'esterno, per chi vi segue, è quella di una band autentica, vera, passionale. Si legge la voglia di suonare insieme, ma anche la presenza di problemi, discussioni, incomprensioni. È stato ed è ancora difficile tenere insieme la macchina? Ci sono stati momenti delicati, in questi anni?
Dai Pooh agli U2, credo che per chi suona insieme da parecchio tempo, la questione fondamentale per potersi proporre con dignità riguardi la ricerca di nuovi stimoli e significati. Oggi, 2010: quali sono i tuoi stimoli e quelli dei Subsonica?
Il percorso, sotto molti aspetti impagabile - di quelli che valgono una vita intera - è stato talvolta difficile e lacerante. La nostra storia ha raggiunto rapidamente vette che nessuno di noi avrebbe mai ipotizzato. Le altezze però si trasformano facilmente in vertigini: come la paura di fare mosse sbagliate o di non essere in grado di gestire adeguatamente quello che succede, unitamente alle dinamiche centrifughe tipiche di ogni band - i vari percorsi solisti, l'intrusione di adulatori professionisti attratti dal successo che finiscono per dopare l'autenticità delle relazioni, il rapporto con radio, tv, discografici, sponsor, propinatori di ogni sorta di distrazione ai singoli e tutto il repertorio di luoghi comuni presenti in ogni biografia rock-pop - a me personalmente hanno tolto il sonno davvero molte volte. Troppe.
Devo però dire che esiste un legame profondo che ci unisce. Ed è un legame incomprensibile al mondo esterno. Tutte le persone che hanno provato a fare leva sulle diversità o momentanee spaccature, allo scopo di manovrare le nostre scelte, a sorpresa si sono trovate bruciate e fuori dai giochi. Gli stimoli primari sono legati all'armonia e al senso di benessere che si crea improvvisamente quando ci ritroviamo a fare quello che a tutti noi riesce meglio nella vita, cioè musica. Al netto di tutte le cazzate.
Sono sempre stato piacevolmente sorpreso dalla vostra (e tua) capacità di mantenere contatti diretti con il pubblico che vi segue, nonostante la sua esponenziale crescita avvenuta in questi anni. Siete stati infatti tra i primi a utilizzare il web come interfaccia immediata con i navigatori, dimostrando un'attenzione privilegiata a chi sta dall'altra parte. Con uno spettro così ampio di gente che vi ascolta (Frankie Hi Nrg diceva: "Dobbiamo prenderci tutta la riviera e qualche centro sociale"), e che vi dice di tutto, e che commenta tutto, nel bene e nel male, non è complesso e forse inutile dover rispondere a tutti o quasi della vostra identità e delle vostre scelte?
Se per mantenere il contatto con le persone che ci seguono dovessimo scegliere tra l'artificialità di una trasmissione televisiva, la lobotomia dei canali radiofonici, le volgari semplificazioni di molta stampa o il confronto, talvolta faticoso e ingrato, con chi sul web è abituato a spaccare il capello (e non solo quello) in quattro per ogni riga che scrivi, preferiremmo comunque il secondo. Detto questo abbiamo talvolta, probabilmente, esagerato nel tentativo di interagire/ spiegare/ raccontare minuziosamente nei minimi dettagli, così come nell'esporre posizioni ben oltre i confini del nostro ruolo di musicisti. Tuttavia, il numero crescente di contatti, che superano ormai le centomila presenze solo sul più recente Facebook, tende a dimostrarci che le persone finiscono per affezionarsi a chi si mette in gioco. Non solo con gli strumenti in mano. Anche quando non condividono tutto quello che pensi.
Max Casacci - SubsonicaI Subsonica sono stati tra gli alfieri della "gloriosa" stagione indipendente italiana anni 90, che faceva capo a Mescal, al Cpi ecc. Che cosa ha permesso quell'esperienza? Oggi il riferimento sono realtà come La Tempesta, significative di uno spirito diverso ma soprattutto di una progressiva delocalizzazione che rivoluziona il concetto di "scena". Che cosa è veramente cambiato in questi famigerati anni Zero nell'indie italiano? E ha ancora senso considerare la musica legata a un territorio preciso (come può essere stata la Milano degli anni 80 e 90, o la vostra Torino)? Nel tuo caso, com'è cambiata la Torino musicale in questi anni?
La Mescal, al di là dei problemi che quasi tutti gli artisti hanno avuto con Valerio Soave, oltre ad avere rappresentato una grande opportunità per molti di noi, è stata il simbolo di una bella stagione. Tuttavia esperienze come quella o come il Consorzio non sarebbero ripetibili oggi, almeno non in quei termini. La disaffezione all'acquisto degli album ha spinto tutto il settore musicale verso differenti forme di profitto: gadget, cellulari suonerie, concorsi televisivi, per i quali il rinnovamento dei linguaggi musicali non è più indispensabile. Il fatto che il direttore di una delle più grandi discografiche abbandoni oggi il proprio posto, per mettersi a lavorare in un talent show, dice più di qualsiasi altra considerazione. Le indie label degli anni 90 utilizzavano risorse major per mettere i propri artisti in grado di competere alle stesse condizioni di visibilità, con la musica di mercato. Valeva per noi, Cristina Donà o gli Afterhours, ma, per capirci, ad altri livelli anche per un Aphex Twin, che senza i costosi video di Chris Cunningham, non avrebbe sviluppato la potenza rivoluzionaria che conosciamo.
Oggi chi fa musica lo fa inevitabilmente per urgenza espressiva, per necessità. Sta tornando, più o meno tutto come nei primi anni Ottanta, quando la musica era semplice questione di "vita o di morte". E infatti i locali ricominciano a riempirsi di live. Dopo un decennio piuttosto trascurabile torniamo anche ad ascoltare dei buoni album. Devo dire che non ho amato per niente gli anni Zero e la generazione del "tutto mi è dovuto". Mentre mi trovo perfettamente a mio agio con i musicisti ventenni nei quali riconosco slanci, generosità e coraggio spesso sconosciuti ai fratelli maggiori.
A Torino la rigenerazione della scena in corso è molto interessante. Si sviluppa tutto più o meno intorno a tre circuiti. Nel quartiere multietnico di San Salvario, dove la boheme studentesca cittadina trova domicilio, è nata una curiosa forma di canzone d'autore. Tra i protagonisti : Matteo Castellano, Deian, Vittorio Cane e altri autori visionari e disincantati le cui canzoni rimbalzano tra myspace e siti come www.torinosistemasolare.it (dove è possibile scaricare gratuitamente la compilation "San Salvario da mezzanotte alle quattro") o si ascoltano nei piccoli locali in stile Greenwich Village, della zona. L'alternative rock (tanto per usare un'espressione iTunes) è invece di casa allo Spazio 211: vero covo underground di periferia, che ha band come DiD, Stearica, Movie Star Junkyes, Discodrive come portabandiera. Gli stessi nomi sono presenti nei programmi dei locali di mezza Europa. Sovente anche negli States.
Nell'elettronica si muovono cose altrettanto interessanti. Dietro nomi enigmatici come "Vaghe Stelle" "The Licious", "Postal M@rket", "X-luve", "Passenger", "Abstract", si nascondono giovanissimi produttori a proprio agio con l'elettronica sperimentale ma contemporaneamente in grado di produrre sonorità dancefloor. Il Puddhu ai Murazzi e la serata "China Surprise" sono l'epicentro di questa piccola scuola. Gli LN Ripley poi, con il nostro Ninja ai tamburi, (a detta di tutto il circuito: la migliore drum'n bass live band del pianeta) ed Ezra produttore in bilico tra meticciato ritmico e pop obliquo, chiudono il cerchio di una scena viva e intensa come da anni non succedeva. Qualcosa mi porta a pensare che, anche se Torino le cose succedono con leggero anticipo, la stessa cosa stia capitando un po' ovunque.
Da cinque anni ormai siete sotto contratto con una major. Oggi si sente di tutto e di più sullo stato di salute delle multinazionali della musica. Come consideri la crisi del mercato discografico (italiano e non), e quanto ha pesato sulla tua esperienza da musicista? Non credi che, più che l'avvento di internet e del file audio compresso, a causarla sia stata la risposta impacciata e timorosa a queste nuove tecnologie? Quali possibilità ci sono per il futuro?
Oltre all'intramontabile e insostituibile live, le possibilità per il futuro le abbiamo quotidianamente sotto gli occhi mentre apriamo un laptop e aggiorniamo software sempre più completi per suono, grafica, fotografia, montaggio di immagini.. E' lecito aspettarsi che tra i cosiddetti "nativi digitali", si sviluppi a breve una scena "rinascimentale", fatta di artisti in grado di utilizzare simultaneamente tecniche espressive differenti. Il concetto di avanguardia ha sempre avuto a che fare con la distruzione dei confini disciplinari, e spazi come YouTube, ma forse ancora di più i nuovi"contenitori" come iPad o i cellulari, saranno talmente affamati di "contenuti" multimediali da fare presto dimenticare la necessità della discografia tradizionale. E chi meglio dei ragazzi che crescono maneggiando quotidianamente le infinite possibilità creative del proprio pc e interfacciati in tempo reale con tutte le piccole rivoluzioni sotterranee, dovrà mettere a frutto queste possibilità? Ovviamente tutto questo succederà in relazione al clima culturale. Ragione per cui, invece di interrogarci se piangere o meno sulle macerie di un circuito ormai morto, dovremmo concentrarci sulla battaglia culturale generale, che è quella da vincere. E non la vinceranno certo i candidati ministri, gli assessori, i salotti, né la maggior parte delle redazioni per come le conosciamo oggi. Sono andato fuori tema. Lo so.
È di pochi giorni la notizia della vostra partecipazione allo Sziget Festival. Il palco è prestigiosissimo, e avrete di fronte davvero un campione preciso di pubblico mondiale. Avete qualche idea particolare e diversa per quella data, o la ricetta sarà la stessa che vi ha portato in giro per l'Italia? Come sono andate le altre recenti esperienze all'estero? Credi di più in una musica italiana (di qualità) da esportazione, o in una musica italiana in lingua inglese capace di competere a livello europeo e mondiale?
E' una bella domanda, la seconda intendo. Per la prima, credo che riproporremo il live già rodato nel precedente giro dei locali europei (Londra, Bruxelles, Madrid, Barcellona, Ibiza), cioè un concerto centrato sul nostro lato più dance, che è tra l'altro un elemento associato all'italianità. Inoltre, sono poche le band sulla scena internazionale che mescolando strumentazione rock con attitudine dance risultano credibili e coinvolgenti on stage, a parte Soulwax, Lcd Soundsystem, Who Made Who e non molti altri. Quindi ricerchiamo lì il nostro spazio, per evitare di essere considerati i soliti italiani cloni di qualcos'altro.
Per quanto riguarda la musica italiana all'estero, direi che da un lato andiamo incontro a un'unificazione europea culturale e linguistica, quindi prima o poi anche all'Italia potrebbe toccare la considerazione (come Belgio, Germania o paesi scandinavi), di luogo a piena dignità rock. I gruppi di certo non mancano. Dall'altro il problema della lingua troppo spesso lo poniamo noi prima di chiunque altro. L'italiano è una lingua cool, certamente più dello spagnolo e almeno al pari del francese. Sta alla qualità del sound, alla personalità e al carattere di chi scrive in italiano, sapersi smarcare dai cliché della musica tricolore. Dal mio punto di vista, prima ancora dei Subsonica avevo già fatto diversi tour in giro per il mondo suonando con Africa Unite, o lavorando al mixer con la prima cellula dei Mau Mau. Si cantava in italiano, quando non in piemontese, senza il minimo problema da parte del pubblico.
Casasonica.it è ancora attivo, ma non più aggiornato da due anni. Che cosa è successo con le band sotto contratto, se puoi raccontarcelo? E come ti senti di giudicare questa esperienza discografica: rifaresti tutto? Qualcosa è andato storto, è stato un fallimento oppure alcune contingenze hanno portato naturalmente a questi esiti? Oggi che cosa significa Casasonica?
Casasonica etichetta, nei fatti, non esiste più. Può essere interessante analizzare gli errori, perché ci sono stati e le caratteristiche positive dell'esperienza, perché c'è qualche cosa di significativo anche lì. Innanzi tutto il mio errore fondamentale: non aver preteso da band alla prima uscita il sacrificio e la pazienza necessari ad affrontare la gavetta. Ovvero quella fase nella quale spendi tutte le tue energie senza nessuna certezza, che per me è durata almeno 15 anni, prima che le cose andassero in un altro modo. Mi trovavo imbarazzato nell'insistere con le band sul fatto avrebbero dovuto suonare tanto e ovunque, con o senza impianti anche per cento euro e dormire in furgone se necessario. Mi sentivo a disagio perché nel frattempo stavo riempiendo i palazzetti, dormendo in comodi hotel e viaggiando su un camper con playstation e Dvd. Da lì il tentativo di piazzare i loro concerti solo a determinate condizioni, affittando mezzi di trasporto e alloggiamenti, che ha provocato una notevole emorragia di risorse. Una band come i Petrol era arrivata al punto di pretendere i backliner fin dalla prima data.
Altro errore di valutazione: non avere capito, per tempo, che gli anni 90 erano finiti da un pezzo e che la quaresima degli anni Zero stava per raggiungere il suo picco di desolazione: poco pubblico ai concerti e zero interesse per le nuove band. Insomma, non che pretendessimo di vendere gli album, ma che in tempi relativamente brevi qualche band avrebbe incominciato a spaccare nei live, ce lo saremmo aspettati. La cosa certamente più deleteria è stata la sovrapposizione con Casasonica/management voluta dal manager Alessandro Chiapello, decisamente più interessato alla gestione di artisti già affermati come Afterhours e Baustelle prima e Niccolò Fabi e Arisa poi (e a quel punto ho capito che non c'era più storia). In pratica, il livello più underground della factory/etichetta (quello che a me interessava) produceva album, realizzava laboratori di comunicazione come newsonica, allevava artisti visivi e sperimentava forme di comunicazione via web, creava l'habitat per la formazione di band trasversali come LnRipley, album come "Gatto Ciliegia" e "Robertina" etc. E il livello più manageriale ignorava il tutto per dedicarsi unicamente a esperienze di più gratificante visibilità. È tuttora in corso un confronto piuttosto acceso, tra me e Chiapello, per capire come portare a conclusione tutta l'esperienza.
Max Casacci - SubsonicaSei stato ideatore e realizzatore anche di un'altra esperienza fondamentale per la città di Torino: il Traffic Free Festival. Che bilancio dai, dopo sei anni dal primo evento? Penso che in Italia il Traffic possa considerarsi un evento unico, a livello di produzione e di offerta. È questa la strada da seguire per la musica live in Italia? Qual è la ricetta per poterlo esportare anche in altri luoghi della penisola?
La ricetta se mai esiste, consiste nell'interrogarsi a fondo sul significato di festival (vogliamo chiamarlo rock?) in anni come questi. Interrogarsi soprattutto sulla differenza tra un semplice avvicendamento, più o meno variegato, di band su un palco, che sarebbe più opportuno definire rassegna, e la necessaria "dimensione" di un festival. Elementi come la totale gratuità, la ricerca di linee guida sulle quali costruire e motivare le decisioni artistiche, la volontà di sviscerare in chiave multi-disciplinare tutto quello che la musica si porta appresso: mediante il cinema, la comunicazione grafica e visiva, il clash con la letteratura tendono a restituire all'"evento", un ruolo più completo, appagante. Vogliamo sporcarci le mani con la dietrologia? Ok :"Spirituale".
Per quanto riguarda l'Italia, quello che ti posso dire è che un discorso come questo portato al tavolo di una qualsiasi amministrazione culturale produce immediatamente irritazione se non sbadigli. Qui a Torino, l'esperimento è stato tentato fondamentalmente perché sono stato disposto a giocarmi la faccia accettando un'eventuale crocifissione. Al suo posto ci sono stati invece i risultati: di numeri, di feedback internazionali, di promozione della città e della regione in termini di immagine, e della considerazione culturale solitamente negata ai festival giovanili. Nonostante l'investimento, nettamente inferiore a quello di qualsiasi altro festival di uguali dimensioni, la magnitudo del Traffic ha proporzioni paragonabili ai più grandi e mega sponsorizzati eventi della penisola.
Non hai mai nascosto il tuo interesse vivo e appassionato per l'impegno civile, attraverso i testi, il palco e il web. Con i Subsonica, avete perorato la causa di molte associazioni e iniziative davvero toste, recentemente Nonuke, Global Zero... Credi che il musicista/artista sia uno degli ultimi comunicatori politici e sociali rimasti? Anche in questo, l'esperienza di Obama (che ha avuto l'appoggio di buonissima parte del mondo artistico americano) ci ha insegnato o ci deve insegnare qualcosa?
Ho di recente conosciuto Trevor Fitzgibbon, cioè l'inventore di Move on: il movimento da cinque milioni di voti che ha prodotto la vittoria di Obama alle primarie prima, e alla Casa Bianca poi. E ho capito che se un rockettaro di Seattle, appassionato di cause civili, forte della sensibilità di carattere empatico che l'esperienza della musica ti fornisce, riesce a fare quello che a fatto - e inoltre con la campagna "global zero" sul disarmo nucleare mondiale responsabile dei più recenti accordi Usa-Russia continua a fare - molte cose sono possibili. Trevor è venuto in Casasonica dopo una conferenza torinese su attivismo e social network, perché aveva sentito parlare dei Subsonica e del loro impegno, ma soprattutto per via di www.torinosistemasolare.it , di cui sono un responsabile. Incuriosito da un clip ("Mafia spa") realizzato in collaborazione con Libera sul rapporto tra mafia e consumo di cocaina, ha voluto capire che tipo di trasversalità ci fosse dietro e come si muovesse questa strana rete cittadina autogestita. Una rete formata da associazioni studentesche, musicisti, luoghi, della notte, associazioni antimafia, artisti visivi etc. e impegnati a riprogettare la città. Ci ha riempiti di complimenti e si è portato via un bel po' di materiale, oltre a qualche cd dei Subsonica.
Questa gratificazione (decisamente importante) ci insegna che le cose vanno semplicemente fatte, che non bisogna perdersi solo dietro a chiacchiere e fritture dell'aria e che soprattutto non bisogna tanto aspettare la politica, quanto anticiparla, sensibilizzarla, pilotarla. Magari attraverso piccole, quotidiane utopie territoriali, capaci di riprogrammare obiettivi e senso di appartenenza. La musica, non solo i suoi protagonisti ma anche e soprattutto i suoi luoghi, possono davvero molto più di quanto pensiamo.
Sei una persona in prima linea per quanto riguarda le politiche culturali della tua città, per i tuoi progetti credo tu abbia tenuto e tenga relazioni con la politica e gli ambienti decisionali. Se fossi tu ad avere in mano le carte da firmare per poter decidere, quali provvedimenti urgenti prenderesti oggi per la musica?
Farei una cosa impensabile, radicale, estremamente rivoluzionaria, che nessuno (nemmeno Veltroni, con il suo ventilato programma per la musica) ha mai pensato di fare. Parlerei con i musicisti. Con quelli veri però, non con chi come me ha già una professione, né con chi imbraccia uno strumento per la prima volta e ha già a disposizione le mille rassegne per gruppi emergenti, cioè tutto ciò che le amministrazioni riescono a proporre.
Parlerei con chi sta tentando di fare della musica la propria vita e magari necessita di cose semplici e realizzabili come un ufficio sponsor del proprio comune che si sbatta per procurare un furgone, o uno spazio dove accedere a servizi di consulenza legale per affrontare i primi contratti senza la paura di accettare patti con diavolo. A livello nazionale sarebbe certamente necessaria una semplificazione fiscale e burocratica per non doversi impelagare tra società e commercialisti prima ancora aver capito se la tua musica potrebbe diventare una reale opportunità di lavoro.
Domanda finale di rito. Che cosa gira almeno una volta al giorno nel tuo iPod-Pc-lettore cd-giradischi?
Musica strumentale, generalmente ambient, da Brian Eno a Murcof, ma anche astrazioni ritmiche come Burial o Autechre. Forse perché spesso mi occupo di canzoni sento il bisogno di decongestionare un po' il tutto.
http://www.ondarock.it/interviste/subsonica.htm
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Re: Interviste agli artisti
Mede@ ha scritto:Il mondo cane di Mike Patton
di Paolo Gallori
Il cantante californiano si tuffa nella musica italiana degli anni 50 e 60, brodo primordiale del nostro pop: da Murolo a Morandi, da Paoli a Tenco, ai crooner Buscaglione e Bongusto... «Mi interessava solo passeggiare su una corda tesa tra il rifare quelle canzoni a modo mio e il rispetto per il materiale originale». Omaggio a Morricone: «Springsteen lo ha deturpato». A luglio dal vivo a Milano e Firenze
Fantomas strikes again... almeno nella musica. Capelli tirati all'indietro, baffetti in Dillinger style, abiti eleganti. È l'aspetto assunto da Mike Patton per tuffarsi nel "brodo primordiale" della canzone pop italiana: gli anni 50 e 60. Il disco è stato "testato" con concerti in location d'eccezione e sarà seguito da nuovi appuntamenti live. In Italia, il 27 luglio a Milano (Jazzin'festival, all'Arena Civica) e il 26 a Firenze (Fortezza da Basso). Stavolta l'incredibile cantante californiano, 42 anni e una voce baciata da un trasformismo degno di Gommaflex, riesce a celare anche la bellezza della musica dietro una maschera spaventosa. L'album si intitola Mondo cane. Come il film documentario di Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco E. Prosperi che nel 1962 scioccò lo spettatore sbattendogli in faccia la crudeltà di cui è capace la società umana. Mai come in questo caso, è fondamentale conoscere la "versione di Mike".
«Certo, ho visto il film, chi non lo ha fatto?», dice Mike. «Ho scelto il titolo basandomi sulle reazioni che il film ricevette e perché affascinato dalla sua natura provocatoria. Ho sentito il dovere di presentare un simile repertorio musicale in circostanze che fossero una sfida alle intenzioni e ai risultati. Un titolo come Mondo cane era il modo perfetto di sollevare le giuste domande su un simile progetto, che potrebbe facilmente essere scambiato per la cafonata sperimentale di un "gringo"».
No, nessun arrogante "gringo" abita qui. Patton è un nomade. Incapace di resistere negli stessi panni, negli stessi suoni, nella stessa band e nello stesso paese oltre la soglia dell'abitudine. Mike spezza sul nascere le illusioni di chi continua ad associarlo solo ai Faith No More («Nuovo materiale con loro? Non adesso, forse mai») per parlare solo del miglior frutto del suo intimo rapporto con l'Italia. Mondo cane copre un arco temporale che va dal 1951 - Scalinatella di Roberto Murolo, che Mike canta in un napoletano decisamente migliore di quello tanti interpreti italiani ma non partenopei - e arriva al 1968 di Deep Down, tema di Ennio Morricone per il film Diabolik (altra maschera) di Mario Bava.
Estremi di un periodo che definì, è convinzione di Patton, «un approccio autentico alla musica pop italiana». «Non so granché di quell'Italia», confessa Mike. «Per quanto “vecchio”, vissi solo un paio degli anni 60. Tutto ciò che so è che nel mondo del pop fu praticata una magia musicale. In Italia sembra ci fosse una certa libertà per cantanti e autori, gli arrangiatori erano fondamentalmente i migliori tra i migliori compositori di musica per il cinema. Situazione che permise un certo fermento nell’ambito del formato pop, a cui furono applicate tendenze avanguardiste, tidbits orchestrali, modelli americani e tecniche worldmusic. Un approccio autenticamente unico al pop. Come non amare tutto questo?».
In Mondo cane non poteva mancare Morricone, ma colpisce il recupero di Deep Down quando il rock Usa celebra il Maestro soprattutto per i temi degli spaghetti Western. Springsteen e Metallica hanno vinto pure dei Grammy con le loro cover.
«Mi spiace che Springsteen abbia deturpato un compositore intoccabile come Ennio. Non ha senso. Non so cosa rispondere sull’inondazione di artisti americani che hanno reso tributo al Maestro, non ho niente a che vedere col fenomeno. Morricone ovviamente merita simili celebrazioni, ma io ritengo la sua opera “quasi” intoccabile.
Se si deve rendere un omaggio musicale al suo lavoro, lo si deve fare in modo intelligente e anche aggressivo. Con rispetto ma soprattutto in modo più importante sviluppando approcci unici. Non puoi rendere rendere migliore qualcosa di perfetto. Puoi solo riarrangiarlo e reinterpretarlo. Posso solo dire di aver fatto del mio meglio».
In Italia Mike ha trovato l'amore, uno dei tanti luoghi dove vivere e molti amici. Nei video che circolano su YouTube, registrati dal vivo al Paradiso di Amsterdam, la tromba di Roy Paci gli è accanto assieme all'orchestra. Ma questo non basta a spiegare lo sforzo di Mondo cane e il coraggio di un disco cantato interamente in italiano. La perplessità è solo il frutto di un antico vizio italiano chiamato provincialismo.
«Quel songwriting e quello stile italiano negli arrangiamenti oggi sono considerati incredibilmente importanti. Negli Stati Uniti, e non solo, c’è gente che rifà i classici italiani di quel periodo, la cui influenza è arrivata ben oltre i confini del vostro paese. Cosa mi ha attratto verso quel sound e quei tempi? Semplicemente il vivere in Italia. Le mie orecchie erano costantemente aperte. E mi innamorai di quei suoni intricati, quegli approcci audaci e quei densi e godibili arrangiamenti. Elementi che a me suonarono con il tono di un benvenuto, facendomi sentire uno del luogo e non uno straniero. Fu un periodo eccitante nella mia vita, in cui tante cose erano nuove: lingua, musica, gente. Oggi posso dire con certezza che gli italiani, in generale, sono stati decisivi nel raggiungimento della fiducia di cui avevo bisogno in quel delicato momento della mia vita».
Patton si confronta con il crooning audace di Fred Buscaglione (Che notte!, 1959) e Nicola Arigliano (20 km al giorno, 1964), poi con il confidenziale e persuasivo Fred Bongusto (Ore d'amore, 1967). Perché loro e non Sinatra, Dean Martin, Tony Bennett, Perry Como?
«Perché sento un più forte legame con quei guys. Ero molto più interessato a un crooning che mi fosse estraneo, opposto a quello "nativo". A volte, una prospettiva esotica ti aiuta a vedere le cose in modo completamente differente. E ti dà il coraggio necessario a completare un’avventura come questa. Può suonare strano, ma io mi sento infinitamente più a mio agio come crooner in una lingua che non sia la mia. Mi offre una maschera, mi infonde una certa fiducia. Adoro Frank, Dino, Tony Bennett, certo. Ma a volte, (ed ora, almeno per il momento) mi sento un po’ più a mio agio a sperimentare quel vocabolario musicale in un’altra lingua. Ed è un bellissimo lusso!».
Come accadde a Steven Brown dei Tuxedomoon, Patton si perde nelle canzoni di Luigi Tenco, dal vivo propone Lontano lontano, salvo riprendere sul disco Quello che conta, a firma Luciano Salce/Morricone, che il cantautore suicida al Sanremo del 1967 interpretò nel 1962 per il film La cuccagna. Influisce quel tragico destino sul morphing di Mike Patton?
«No, niente affatto. Ho scelto i pezzi solo su una base musicale. Certo, mentirei se non dicessi che quando ascolto o reinterpreto un grande come Luigi Tenco io non pensi a lui e alla sua vita. Sapere come andarono le cose si riflette sul modo in cui ascoltiamo la sua musica. Personalmente, la ascolto con molta più melanconia di quanta sia solito provare. Quanto si riflette sulla mia interpretazione? Ho abbastanza rispetto da lasciar sola la musica, da iniettare il mio succo dove è necessario ma non fino al punto di massacrare un’opera d’arte perfettamente costruita».
Dal 1964 Mike trae il giovane idolo pop Gianni Morandi di Ti offro da bere, dal 1965 L'uomo che non sapeva amare di Nico Fidenco. Al beat italiano rende omaggio trasfigurando Urlo Negro (1967), unico segno lasciato dai Blackmen nella scena dell'epoca. E finisce anche lui con lo specchiarsi nelle melodie senza tempo di Gino Paoli (Il cielo in una stanza, 1960, Senza fine, 1961). Come è arrivato a delineare una simile lista?
Mike rivela un'insospettabile "complice" dall'etere. «Ancora una volta, devo sottolineare quanto l’italian state of mind mi abbia messo così a mio agio da potermi permettere una simile pazzia… imparare il gergo del pop italiano, istruirmi sulla sua età d’oro... Sono canzoni che ho trovato, che ho ascoltato, che ho sentito di passaggio, mentre vivevo in Italia. Ho avuto ottimi consigli. Altre mi sono giunte per caso, come se i miei amici sapessero a cosa stessi pensando. Altre, infine, le ho ascoltate su 'Radio Italia Anni 60', la stazione dedicata agli oldies che scoprii quasi per sbaglio: mentre mi facevo delle cassette nel periodo in cui ero impegnato nell’apprendimento della lingua. Complicato, come lo è qualsiasi avventura».
L'accostamento tra evergreen ed evanescenti schegge di memoria non sorprende più del fatto che a misurarsi con simile repertorio sia un californiano diventato rockstar con il crossover dei Faith No More, poi transfuga attraverso mille altri progetti (Mr. Bungle, Fantomas, Tomahawk, Peeping Tom, Moonchild) e collaborazioni (Bjork, John Zorn, Melvins, Corleone, Dan The Automator tra gli altri), con l'obiettivo costante di rivoltare forme e stili come calzini.
«Non so e neanche mi interessa per cosa sono conosciuto. Faccio musica che a me fa stare bene. In questo caso, reinterpretando canzoni sensazionali e di grande ispirazione. Mi interessava solo passeggiare su una corda tesa tra il rifare quelle canzoni a modo mio, da una prospettiva 'altra', e il rispetto per il materiale originale. Un’impresa molto difficile».
Tra le canzoni di Mondo cane, ce n'è una che ama di più cantare o con cui le è piaciuto di più misurarsi?
«Le amo tutte. Hai dei bambini? Chi è il tuo preferito? Chi può rispondere a una simile domanda? I miei dischi sono come figli (dice Mike, ancora in italiano). E non esiste modo con cui io possa scegliere il mio preferito».
http://xl.repubblica.it/dettaglio/80146
Medea mi era sfuggito questo post,grazie, io amo Mike
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Re: Interviste agli artisti
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Re: Interviste agli artisti
Joni Mitchell - La vita riparte a sessant´anni | |
"Incontro gente che mi dice: ti ho scoperta solo di recente, pensavo che tu fossi una cantautrice per donne, gay e neri Proprio così, i gay e i neri non hanno pregiudizi, sono dei fuorilegge, scelgono, come le donne Gli altri sono pecore" | |
"Non vorrei sembrare una hippy fuori tempo ma se qualcuno sopravviverà a questa catastrofe ritroverà la sintonia con la madre terra e il padre cielo" ILos Angelesl fuoco crepita nel caminetto, dal condizionatore arrivano refoli di aria gelida. Anche la California pretende il suo Natale. Fuori la temperatura è quasi estiva, ma in casa a tutti piace crearsi l´illusione dell´inverno. È un´imitazione del nostro Natale che svela il trucco non appena varchi la soglia di casa, il venticello tiepido ti accarezza e l´inquilino della porta accanto ti dà il buon giorno dondolandosi in pantaloncini sull´amaca. Accanto al camino, Joni Mitchell si stringe nella sua giacca come fosse un dicembre davvero freddo. Indossa il suo tipico cappello, la gonna ampia, gli stivaletti. Tutto nero, tranne i capelli color miele che le accarezzano le spalle come quelli della ragazza che a ventuno anni scese dal Canada a Los Angeles, la carnagione bianchissima e quel sorriso vagamente equino per il quale i colleghi, ebbri di flower power e acido lisergico, andavano pazzi: Tom Rush, James Taylor, Graham Nash, David Crosby, Neil Young. Lei, che in Canada pattinava sul ghiaccio, a Laurel Canyon diventò una musa baciata dal sole. I Led Zeppelin scrissero Going to California stregati dalle sue ballate, tutte diventate dei classici: si contano 558 versioni di Both sides now, 207 di Big yellow taxi, 165 di Woodstock, 144 di River, 135 di The circle game, 109 di A case of you, 79 di Chelsea morning. La suite del Bel Air Hotel è arredata come una baita. «Avrei voluto incontrarla a casa mia», esordisce, aspirando fumo da una sigaretta più avidamente di Karen Blixen, «ma c´è un disordine pazzesco. Sono un´appassionata di pittura, ci sono tele ovunque. Italiano, vero? Ah, gli Uffizi. Ci torno spesso. E Roma, ah Roma… ricordo ancora le passeggiate in bicicletta col mio fidanzato, a Villa Borghese». Roberta Joan Anderson (Mitchell è il cognome ereditato da un matrimonio subito naufragato) ha appena compiuto sessantaquattro anni; sono passati quarant´anni dalla prima incisione, You turn me on, I´m a radio, dieci dalla rottura con l´industria del disco «controllata da porci pornografi», sei dal ritiro dalle scene, ora interrotto dalla pubblicazione di Shine, un album in cui ricanta con uguale splendore Big yellow taxi, il suo inno ecologico. «Vengo da una famiglia di coloni», racconta. «Mio nonno fu uno dei primi a dissodare la terra nella provincia di Saskatchewan, nel Canada occidentale. E quando costruirono la ferrovia, il primo ad andarci a lavorare. Un pioniere. Furono quei campi di grano a ispirare le mie prime tele. Quando l´ispirazione di musicista si è bloccata, dieci anni fa, quella di pittrice è diventata debordante. A un certo punto mi sono detta: basta, non scriverò un´altra canzone, né d´amore né di protesta, mi hanno prosciugato, non ho più niente da dire. Ho spento la radio, chiuso il giradischi, bandito la musica da casa mia». Disintegrate le utopie della "summer of love" («fu un periodo magico, ma brevissimo»), quando California dreamin´ era ormai diventato un inno da revival show, negli anni Settanta Joni Mitchell, con la sua scrittura jazz, rimase un palmo al di sopra del mainstream. Mai passata di moda. In questi mesi la sua musica è ovunque. Modernissima, colta, sofisticata, continua a ispirare schiere di nuove cantautrici. «Contestarono l´album che realizzai con Charlie Mingus e ora chiamano Norah Jones cantante di jazz», protesta, ricordando i tempi in cui lei, Joan Baez e Judy Collins erano la santissima trinità del folk. Lei dentro quell´etichetta non ci si sentiva: mandò in tilt i discografici incidendo dischi arditi e poco commerciali. «Joni è sempre stata lontana dagli standard del pop, il suo repertorio per noi jazzisti è al livello di Ellington e Billy Strayhorn», dice Herbie Hancock, che le ha dedicato l´album River: The Joni Letters, con le sue più belle canzoni interpretate da Tina Turner, Norah Jones e Corinne Bailey Rae. La Nonesuch ha pubblicato A tribute to Joni Mitchell, dove Björk, Caetano Veloso, Cassandra Wilson, Annie Lennox, Elvis Costello, Prince e k.d. lang si cimentano con i suoi classici. L´ensemble Strings Attached le ha dedicato Back to the garden, un disco che riscopre anche My favorite color, un brano che Joni cantava nei club americani nel 1965, quando fu scoperta da David Crosby. I suoi evergreen e alcuni nuovi temi sono la colonna portante di Dancing Joni, progetto del coreografo Jean Grand-Maitre per l´Alberta Ballet che ha avuto un successo enorme in Nordamerica. Flag dance, un´installazione multimediale realizzata con le foto scattate alla sua tv che trasmetteva immagini di guerra, è rimasta in mostra per due mesi alla Lev Moross Gallery di West Hollywood (il catalogo è in uscita). Joni è tra le protagoniste del bel libro The Sixties (Ed. Santa Monica Press) con i memorabili bianco e nero con cui il fotografo Robert Altman ha immortalato l´America della controcultura. «Mai lavorato tanto in vita mia», sbotta. «La mia carriera dopotutto è iniziata col balletto. Sa che a nove anni ebbi la polio? Mesi e mesi in ospedale in quell´interminabile inverno canadese. Dissero che forse non avrei più potuto camminare, che non mi avrebbero dimessa per Natale. Quando scoprii che le mie gambe funzionavano ancora benissimo, volli un tutù rosa e cominciai a ballare. E a fumare. Da allora non ho più smesso». Sognava di diventare Isadora Duncan, invece fu rapita dal sogno americano, dalle lusinghe del pop. Anticonformista tra gli hippies, Joni andò per la sua strada. Determinata e spavalda come Amelia Earheart, il suo idolo, la prima aviatrice della storia misteriosamente scomparsa a bordo del suo velivolo, battezzò gli anni Settanta con Blue, che molti considerano il suo capolavoro, si fece fotografare nuda all´interno della copertina di For the roses (1972), intitolò un album Hejira (1976), ispirato al volo di Maometto dalla Mecca a Medina, infine tentò un difficoltoso e affascinante percorso jazzistico. «Era un affare meno redditizio, i nostri manager non volevano che ci allontanassimo dal pop», spiega. «Ma io sono cresciuta con la filosofia della tartaruga, pensando che niente di quello che facevo sarebbe stato apprezzato finché sono in vita. È il destino di quelli che vogliono essere originali a ogni costo. Sa che ho incontrato persone della mia età che mi hanno detto: Joni l´ho scoperta solo di recente, pensavo lei fosse una cantautrice per donne, gay e neri. Già i gay e i neri non hanno pregiudizi, sono per natura dei fuorilegge, non si fidano delle etichette. Scelgono, come le donne. Gli altri sono pecore. Sa perché io con i discografici non sono mai andata d´accordo? Perché sono una donna. Sono stata raggirata, truffata. Il mio primo contratto fu un disastro. A conti fatti, credo di non aver avuto più del due per cento del capitale che ho generato», protesta, con quell´espressione folle che le vela gli occhi quando sta per perdere il controllo e non riesce a trovare le parole giuste per esprimere il suo furore. «Certo, sono stata più fortunata di Frankie Lymon, un genio che i discografici abbandonarono al suo destino e fu trovato morto su un marciapiede di New York come un barbone, ma quello che mi fecero firmare all´inizio fu un "contratto da negro"», rincara. «So che questa è un´espressione politicamente scorretta, ma la gente di colore capirà quel che intendo. Io sono la Jackie Robinson della canzone d´autore perché sono considerata una donna arrogante. Ci sono mille pregiudizi intorno alle donne che sanno il fatto loro. Gli uomini le temono. I businessman le evitano. Mi sono presa la rivincita una volta che a Chicago incontrai un tipo grande e grosso, mi abbracciò, mi sollevò da terra come una fidanzatina. "Grazie, tutto quel che so delle donne l´ho imparato da lei", disse. Era un buttafuori, un eterosessuale bianco, uno dei pochi uomini che non si vergognano di piangere. Un´eccezione nella psiche occidentale, dove la sensibilità si è atrofizzata dai tempi di Socrate e Platone. Tutta colpa del monoteismo. Mi sembra più giusta l´idea pagana secondo la quale l´uomo e la donna hanno creato la terra insieme. Il mito dell´eroe maschio nasce con il peccato originale. Ancora oggi siamo pieni di fabbricanti di eroi. Guardi Bruce Springsteen, ne sforna a dozzine per sentirsi eroe lui stesso. A me, come donna, non è stato neanche concesso d´immaginarmi eroina. Sono figlia della luna, la luna controlla le maree e il mio ciclo riproduttivo. Non ho il diritto di comandare. Ecco dove ci ha portato questa teologia macho priva d´intelligenza spirituale: sul baratro di una nuova guerra mondiale e nucleare. Non vorrei sembrare una hippy fuori dal tempo, ma se un pugno di persone sopravvivrà a questa catastrofe, sono sicura che si rimetterà in sintonia con la madre terra e il padre cielo, come gli indiani che abbiamo sterminato. Abbiamo bisogno di una teologia che rispetti il pianeta. Siamo in pericolo, e la colpa, secondo me, è del monoteismo». Quando l´11 settembre sconvolse l´America e il mondo, Joni non aveva più voglia di scrivere canzoni. Solo oggi racconta l´effetto che le fecero quelle immagini terribili trasmesse dal suo vecchio e difettoso televisore (non l´ha ancora cambiato). «La cosa che immediatamente mi colpì fu il contrasto che esisteva tra le donne: quelle totalmente velate e quelle che ostentano ombelico, tette e culo. Quando l´aereo colpì la seconda torre pensai: forse adesso le donne cominceranno a vestirsi con più pudore. Le sembrerà idiota, ma fu questa la mia prima reazione. Guarda quanto ci odiano, pensai, rifiutano la nostra cultura malata. Un duro colpo per l´arroganza occidentale. "Cosa abbiamo fatto per meritarci questo?" doveva essere la domanda che persone adulte e responsabili avrebbero dovuto porsi. Invece tutti, come bambini, hanno cominciato a giocare alla guerra. Chi farà fronte alle conseguenze dell´ignoranza e della stupidità dell´amministrazione Bush? Obama, Hillary… un nero o una donna, chi altro? Ma ci vorrà del tempo». Negli anni Settanta nessuno ne era a conoscenza: a ventuno anni, nel 1965, Joni ebbe una figlia, Kelly Dale Anderson, che fu data in adozione. Non aveva scelta: inseguire i suoi sogni o fare la mamma. Dopo lunghe ricerche, la Mitchell ha ritrovato sua figlia, che nel frattempo era stata ribattezzata dai genitori adottivi Kilauren Gibb, nel 1997. Troppo tardi per fare la mamma, appena in tempo per improvvisarsi nonna. Senza rimorsi. «Nel periodo in cui non ho inciso, ho dipinto molto e mi sono dedicata a mia figlia e ai miei nipoti», racconta. «Ho cominciato a collezionare cornici di strass in cui metto le foto che scatto ai bambini. Adesso casa mia è la tipica villa della nonna, con tutti quei giocattoli sparsi ovunque. Ho deciso di non condividere con il pubblico quello che facevo. Fino a quando ho cominciato a scattare quelle foto alle immagini di guerra che trasmetteva la tv. All´improvviso ho sentito il bisogno di far sapere come la pensavo». Una nuova musica l´ha aggredita alle spalle in un eccesso di serenità. Non ci sarebbero state parole, se uno dei nipotini non l´avesse aiutata a trovarne di nuove. «Ormai trascorro molto del mio tempo in Canada, in un piccolo cottage di pietra a picco sul mare, in mezzo alla natura selvaggia. Un giorno io e Hans, il mio vicino di casa, stavamo festeggiando la nostra amicizia e il fatto di aver realizzato il nostro sogno: vivere in simbiosi con la natura in un posto dove il mare e i monti s´incontrano. In uno di quei rari momenti in cui uno è grato alla vita, mi è venuta in mente una melodia. E subito dopo, altre quattro, tutte senza versi. Poi ripensai alle parole che un giorno disse il mio nipotino di tre anni, lasciando tutti di stucco: anche i brutti sogni sono utili nel grande disegno. Gli chiesi: dove l´hai imparato? Io ci ho messo quarantadue anni per capirlo. Furono quelli i primi versi di una nuova canzone». Le donne che sanno il fatto loro non hanno rimpianti. «Io, per la verità, ne ho avuto uno», interrompe, «non essere andata a Woodstock. C´erano problemi organizzativi, non si riusciva a raggiungere la location. Rinunciai, e mi pentii. Oggi penso: se ci fossi andata non avrei scritto quella canzone che poi interpretarono anche Crosby, Stills, Nash & Young, il mio biglietto da visita nel mondo del pop. Senza Woodstock forse non sarei mai diventata Joni Mitchell. Anche i brutti sogni sono utili nel grande disegno». |
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davvero molto interessante questa intervista!
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Re: Interviste agli artisti
ma qui solo interviste scritte? Perchè so che per Morgan c'è la sua riserva, ma è stata una tale soddisfazione sentire finalmente un'intervista tutta incentrata sull'arte, dopo mesi di gossip prima e domande su questioni personali dopo... che voglio condividerla con tutti.
L'hanno proiettata su alcuni video prima del 1° concerto del tour attuale (con Sergio Carnevale, Megahertz e l'Ensemble Symphony Orchestra diretta dal M° Carlo Carcano) a Sarzana. E' partita all'improvviso, quindi è tagliato l'inizio perchè tra la gente che andava e veniva e le chiacchiere non ce n'eravamo accorte.
Il mio riassunto a grandi linee dei contenuti:
PRIMA PARTE
Morgan e la partitura orchestrale
Morgan descrive il suo approccio progressivo alla partitura “classica” fin dai tempi dei Bluvertigo, quando Lucio Fabbri suonò tutte le parti per archi in Altre f.d.v., nascosto sotto diversi pseudonimi ottenuti da Morgan anagrammandone il nome.
Effettivamente il libretto di Metallo non Metallo riporta quanto segue:
archi in
fuori dal tempo
altre f.d.v.
ideaplatonica
troppe emozioni
scritti da morgan
diretti da lucio fabbri
(ecc)
Lucio Fabbri, Fabio Brulci: violino primo, violino secondo
Fuvilio “Bobo” Clarini, Cilio Barbuf: viole
Roberta Castoldi, Sandro Laffranchini, Terisca Toldobra: violoncelli
violino primo, secondo e viole sono tutti anagrammi di Lucio Fabbri o di Lucio “violino” Fabbri; inoltre, anche se nell’intervista non lo specifica, pure Roberta Castoldi e Terisca Toldobra sono anagrammi.
Successivamente inizia la collaborazione col M° Carlo Carcano, con l’introduzione del quartetto d’archi in “Zero” e il pezzo “Numero”. Tale collaborazione prosegue nei lavori solistici, con l’utilizzo dell’Orchestra sinfonica.
Musica classica-pop?
Morgan si dichiara “pop” quanto Carlo Carcano è “classico”, ma entrambi tengono un piede in due staffe. Dalla loro collaborazione emerge una commistione tra diversi generi, ed una perdita di significato delle suddivisioni stesse di genere. “La musica è musica”, le etichette sono un artificio di cui l’uomo sente il bisogno ma che non hanno riscontro nella realtà. Ha pertanto scelto di iniziare il tour con una parte del Concerto in sol maggiore di Ravel proprio per sottolineare la continuità della musica, l’importanza delle commistioni e l’artificiosità delle categorizzazioni.
In chiusura, una domanda di Enzo Gentile sulle recenti vicende, la cui risposta, che continua nella seconda metà del video, riflette la volontà di ridimensionare il peso delle numerose difficoltà confrontandole con ciò che accade ad altri nel mondo e comunque nella consapevolezza che esse sono giunte dopo un periodo fortunato e non privo di soddisfazioni.
La Lunigiana come simbolo
Le barriere e le delimitazioni che vengono imposte alla Musica corrispondono a ciò che l’uomo opera sulla natura in genere. La natura mescola e unisce, l’uomo divide con confini artificiali. Questo accade nelle terre come la Lunigiana o la Brianza, che geograficamente non corrispondono alla suddivisione politica ma hanno confini naturali da essa distinti. Sarzana quindi come zona di passaggio, come ponte tra diverse realtà, simbolo geografico dell’operazione musicale di “contaminazione” e ponte tra generi di cui questo tour vuole essere espressione.
SECONDA PARTE
Le difficoltà come stimolo – la voce
Interrogato, conferma come le difficoltà siano per lui stimolo per l’evoluzione e la crescita. Certo se l’ostacolo consistesse in un insieme di piccoli fastidi, continui e distraenti sarebbe inutile e non aguzzerebbe l’ingegno; ma se la difficoltà è grave e senza rimedio, l’unico modo per uscirne è cambiare il modo di approcciare il problema, spesso portando ad un’evoluzione impensata e ad una vera novità, come lo fu il “Concerto per la mano sinistra” composto da Ravel in seguito alla perdita della mano destra del pianista austriaco Paul Wittgenstein .
A questo si riallaccia parlando del suo “cambio di voce” in seguito all’intervento alle corde vocali per un “innominabile” benigno, presente probabilmente da anni (l’ultima ispezione all’apparato risaliva all’età di 16 anni, quando fu operato per un nodulo alle corde vocali). Essendo un “cantante da balera” che si strapazza e fuma, come ironicamente si autodefinisce , aveva sottovalutato i segnali che l’apparato gli mandava, ritenendoli conseguenza appunto degli abusi; visto che comunque era in grado di compensare le difficoltà grazie al “mestiere”, ha posticipato la diagnosi e il trattamento. Negli ultimi tempi però i segnali erano così severi e la difficoltà nell’emissione vocale tale e tanta da porlo seriamente in allarme.
Dopo l’intervento alle corde vocali la voce è cambiata, non ha più la stessa potenza (“ricordi quando avevo voce?” scherza… ma gli occhi non sorridono); tuttavia inaspettatamente ha acquisito 2-3 toni in altezza, che gli permettono ora di cantare melodie che in precedenza gli erano precluse.
La sua nuova musica, il ruolo del musicista oggi
Alla domanda di Enzo Gentile su quali siano i suoi progetti ora, risponde che è orientato verso un tipo di musica che prima di tutto deve interessare, appassionare e impegnare lui stesso, che però è molto esigente, anche come ascoltatore. La musica che gli piace ora è ricca di caos, penetrata da una natura devastata dall’uomo. L’uomo vive in un mondo malato, pervaso da suoni di cui nemmeno si accorge, a cominciare dai ronzii continui delle apparecchiature elettroniche onnipresenti. Questo caos sonoro va organizzato e reso fruibile. Il musicista è strumento della Musica e deve capire in quale direzione va il dibattito musicale: Ravel e Wagner componevano quello a cui li portava obbligatoriamente e necessariamente il loro momento storico, perchè la Musica andava in quella direzione. Come può ora lui mettere a disposizione della Musica tutte le parti del suo essere musicista per servirla? Ravel utilizzava l’orchestra, per ricercare le sonorità necessarie; Marco “Morgan” Castoldi oggi può cercare di indagare e sfruttare al massimo le potenzialità dei software esistenti.
Conclude, riallacciandosi al concetto di Musica espressione di un mondo malato, definendo il musicista del futuro come un “medico” della musica, che diverrà sempre più “nanomusica”.
http://metamorgan.altervista.org/
L'hanno proiettata su alcuni video prima del 1° concerto del tour attuale (con Sergio Carnevale, Megahertz e l'Ensemble Symphony Orchestra diretta dal M° Carlo Carcano) a Sarzana. E' partita all'improvviso, quindi è tagliato l'inizio perchè tra la gente che andava e veniva e le chiacchiere non ce n'eravamo accorte.
Il mio riassunto a grandi linee dei contenuti:
PRIMA PARTE
Morgan e la partitura orchestrale
Morgan descrive il suo approccio progressivo alla partitura “classica” fin dai tempi dei Bluvertigo, quando Lucio Fabbri suonò tutte le parti per archi in Altre f.d.v., nascosto sotto diversi pseudonimi ottenuti da Morgan anagrammandone il nome.
Effettivamente il libretto di Metallo non Metallo riporta quanto segue:
archi in
fuori dal tempo
altre f.d.v.
ideaplatonica
troppe emozioni
scritti da morgan
diretti da lucio fabbri
(ecc)
Lucio Fabbri, Fabio Brulci: violino primo, violino secondo
Fuvilio “Bobo” Clarini, Cilio Barbuf: viole
Roberta Castoldi, Sandro Laffranchini, Terisca Toldobra: violoncelli
violino primo, secondo e viole sono tutti anagrammi di Lucio Fabbri o di Lucio “violino” Fabbri; inoltre, anche se nell’intervista non lo specifica, pure Roberta Castoldi e Terisca Toldobra sono anagrammi.
Successivamente inizia la collaborazione col M° Carlo Carcano, con l’introduzione del quartetto d’archi in “Zero” e il pezzo “Numero”. Tale collaborazione prosegue nei lavori solistici, con l’utilizzo dell’Orchestra sinfonica.
Musica classica-pop?
Morgan si dichiara “pop” quanto Carlo Carcano è “classico”, ma entrambi tengono un piede in due staffe. Dalla loro collaborazione emerge una commistione tra diversi generi, ed una perdita di significato delle suddivisioni stesse di genere. “La musica è musica”, le etichette sono un artificio di cui l’uomo sente il bisogno ma che non hanno riscontro nella realtà. Ha pertanto scelto di iniziare il tour con una parte del Concerto in sol maggiore di Ravel proprio per sottolineare la continuità della musica, l’importanza delle commistioni e l’artificiosità delle categorizzazioni.
In chiusura, una domanda di Enzo Gentile sulle recenti vicende, la cui risposta, che continua nella seconda metà del video, riflette la volontà di ridimensionare il peso delle numerose difficoltà confrontandole con ciò che accade ad altri nel mondo e comunque nella consapevolezza che esse sono giunte dopo un periodo fortunato e non privo di soddisfazioni.
La Lunigiana come simbolo
Le barriere e le delimitazioni che vengono imposte alla Musica corrispondono a ciò che l’uomo opera sulla natura in genere. La natura mescola e unisce, l’uomo divide con confini artificiali. Questo accade nelle terre come la Lunigiana o la Brianza, che geograficamente non corrispondono alla suddivisione politica ma hanno confini naturali da essa distinti. Sarzana quindi come zona di passaggio, come ponte tra diverse realtà, simbolo geografico dell’operazione musicale di “contaminazione” e ponte tra generi di cui questo tour vuole essere espressione.
SECONDA PARTE
Le difficoltà come stimolo – la voce
Interrogato, conferma come le difficoltà siano per lui stimolo per l’evoluzione e la crescita. Certo se l’ostacolo consistesse in un insieme di piccoli fastidi, continui e distraenti sarebbe inutile e non aguzzerebbe l’ingegno; ma se la difficoltà è grave e senza rimedio, l’unico modo per uscirne è cambiare il modo di approcciare il problema, spesso portando ad un’evoluzione impensata e ad una vera novità, come lo fu il “Concerto per la mano sinistra” composto da Ravel in seguito alla perdita della mano destra del pianista austriaco Paul Wittgenstein .
A questo si riallaccia parlando del suo “cambio di voce” in seguito all’intervento alle corde vocali per un “innominabile” benigno, presente probabilmente da anni (l’ultima ispezione all’apparato risaliva all’età di 16 anni, quando fu operato per un nodulo alle corde vocali). Essendo un “cantante da balera” che si strapazza e fuma, come ironicamente si autodefinisce , aveva sottovalutato i segnali che l’apparato gli mandava, ritenendoli conseguenza appunto degli abusi; visto che comunque era in grado di compensare le difficoltà grazie al “mestiere”, ha posticipato la diagnosi e il trattamento. Negli ultimi tempi però i segnali erano così severi e la difficoltà nell’emissione vocale tale e tanta da porlo seriamente in allarme.
Dopo l’intervento alle corde vocali la voce è cambiata, non ha più la stessa potenza (“ricordi quando avevo voce?” scherza… ma gli occhi non sorridono); tuttavia inaspettatamente ha acquisito 2-3 toni in altezza, che gli permettono ora di cantare melodie che in precedenza gli erano precluse.
La sua nuova musica, il ruolo del musicista oggi
Alla domanda di Enzo Gentile su quali siano i suoi progetti ora, risponde che è orientato verso un tipo di musica che prima di tutto deve interessare, appassionare e impegnare lui stesso, che però è molto esigente, anche come ascoltatore. La musica che gli piace ora è ricca di caos, penetrata da una natura devastata dall’uomo. L’uomo vive in un mondo malato, pervaso da suoni di cui nemmeno si accorge, a cominciare dai ronzii continui delle apparecchiature elettroniche onnipresenti. Questo caos sonoro va organizzato e reso fruibile. Il musicista è strumento della Musica e deve capire in quale direzione va il dibattito musicale: Ravel e Wagner componevano quello a cui li portava obbligatoriamente e necessariamente il loro momento storico, perchè la Musica andava in quella direzione. Come può ora lui mettere a disposizione della Musica tutte le parti del suo essere musicista per servirla? Ravel utilizzava l’orchestra, per ricercare le sonorità necessarie; Marco “Morgan” Castoldi oggi può cercare di indagare e sfruttare al massimo le potenzialità dei software esistenti.
Conclude, riallacciandosi al concetto di Musica espressione di un mondo malato, definendo il musicista del futuro come un “medico” della musica, che diverrà sempre più “nanomusica”.
http://metamorgan.altervista.org/
miniatina- Utente... preoccupante >10.000 Post
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Re: Interviste agli artisti
minia è ciò che intendevo con questo topic..sentire finalmente un'intervista tutta incentrata sull'arte, dopo mesi
di gossip prima e domande su questioni personali dopo...
interviste che entrassero nel merito dell'artista più che del gossip ..al quale ci stanno abituando.
lepidezza- Utente... preoccupante >10.000 Post
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Re: Interviste agli artisti
eh, l'avevo capito. Però avevo il dubbio essendo un video** e non un'intervista scritta, e per giunta essendoci già Morgan in molti dei topic attivi... insomma, non volevo esser invadente
**in realtà però Enzo Gentile ne ha anche estratto una scritta, presa probabilmente i parte da momenti non ripresi dalla telecamera... adesso la posto, però ha tralasciato proprio le cose più interessanti e dato più peso alla nota personale, che nel video è davvero una minima parte... uff
Morgan si racconta: Ricomincio suonando è la mia unica terapia - Il Mattino, 6 luglio 2010
Elegante, distinto, di un pallido antico anche nella torrida afa della Brianza, Morgan sta preparando con puntiglio e impegno il suo ritorno in grande stile sulle scene. Si è buttato alle spalle molti dei problemi, dei dolori, delle tensioni che hanno riempito le cronache e gli hanno attraversato la vita come un bulldozer, depositandosi sulle spalle come il più pesante dei macigni: vietati i pettegolezzi e le storie su Asia e la figlia Anna Lou, favorita è la musica, vista anche come tramite salvifico, «da qui all’eternità».
Trentasette anni vissuti intensamente, Marco Castoldi in arte Morgan, non fa mistero mistero delle ferite, superate o in via di guarizione: intanto lo attende venerdì il debutto a Sarzana in apertura di «Sconfinando», festival ligure alla diciannovesima edizione. Accompagnato dalla Simphony Orchestra diretta dal maestro Marco Carcano («il ponte tra me e la musica classica, fin dai primi tempi dei Bluvertigo»), Morgan si propone in una veste inedita.
Partiamo dal concerto, Morgan??
«Aprirò con Ravel e chiuderò con Vivaldi: in mezzo le mie canzoni: quelle con i Bluvertigo, da ”Canzoni dell’appartamento”, da ”Italian songbook”, con il tributo ai massimi poeti e autori italiani, fino alla mia rilettura di ”Non al denaro non all’amore, né al cielo” di De Andrè. Credo che ci divertiremo e autorizzo il pubblico a darmi addosso, se non sarà soddisfatto: io ce la metto tutta perché noi amiamo la musica, siamo musica e abbiamo il dovere di servirla sempre al meglio».
Questa nuova avventura può essere vista come un antidoto o un rimedio alla fine di un anno complicato e critico oltre ogni immaginazione?
«In effetti non avrei mai pensato che mi piombassero addosso tutte queste cose in una volta, ma in fin dei conti mi considero una persona fortunata per tutto quello che ha avuto. La salute va meglio, un po’ per volta sistemeremo tutto e sono convinto che andra meglio di prima. Come per la voce che è molto cambiata dopo l’intervento alla corde vocali, per un tumore benigno che, ho scoperto un po’ per caso, mi portavo dietro da dieci, forse vent’anni. Si dice che bisogna fare di necessità virtù: appunto, ora canto in maniera diversa, non provo fatica e scriverò di conseguenza».
Quanto le dispiace aver dovuto interrompere l’esperienza tv di «X Factor» dopo le polemiche per la famigerata intervista sull’assunzione terapeutica di cocaina?
«Ci ho pensato e mi devo sentire contento per aver potuto giocare a lungo, divertendomi insieme a tanta gente, con l’unico mestiere, quello della musica, che mi appartiene davvero. Poi mi hanno buttato giù, ma questo è un altro discorso: peccato piuttosto che con l’esclusione da Sanremo la mia canzone ”La sera” sia stata così maltrattata e soffocata. Non se lo meritava: mi segue da cinque anni e ogni volta rinasce diversa, mutante anche ai miei occhi. La tv è qualcosa che avverto lontana: e in un mondo che in Africa o in Asia, tramite guerre più o meno ufficiali, dichiarate o no, produce migliaia di morti, chi se ne frega del talent show di Raidue! È acqua passata, io guardo al futuro».
In che direzione andrà ora?
«Detto che ormai i dischi e gli spettacoli dal vivo sono elementi di contorno per la carriera di un musicista, so che mi attende qualcosa di innovativo, rivoluzionario, con un progetto in cui sarà il pubblico, chi ascolta, a miscelare i tanti Morgan che esistono. Quello pop, quello classico, quello sperimentale, il cantautore o l’interprete che omaggia la storia. Metterò a disposizione una sorta di grande hard disk da cui prendere e mescolare la musica che mi rappresenta: quasi tutta, dunque. Poi continuerò con rispetto anche la mia missione più istituzionale e allora prepareremo un dvd del recital con l’orchestra e il secondo volume di ”Italian songbook”, in pratica è pronto. Ci ho messo alcune pagine assurdamente considerate minori di Endrigo, Bindi anni Settanta, la versione in inglese della ”Collina” di De Andrè, e ”Il gioco del cavallo a dondolo”, un pezzo ingiustamente misconosciuto di Roberto De Simone, tratto dal suo unico pezzo da cantautore».
**in realtà però Enzo Gentile ne ha anche estratto una scritta, presa probabilmente i parte da momenti non ripresi dalla telecamera... adesso la posto, però ha tralasciato proprio le cose più interessanti e dato più peso alla nota personale, che nel video è davvero una minima parte... uff
Morgan si racconta: Ricomincio suonando è la mia unica terapia - Il Mattino, 6 luglio 2010
Elegante, distinto, di un pallido antico anche nella torrida afa della Brianza, Morgan sta preparando con puntiglio e impegno il suo ritorno in grande stile sulle scene. Si è buttato alle spalle molti dei problemi, dei dolori, delle tensioni che hanno riempito le cronache e gli hanno attraversato la vita come un bulldozer, depositandosi sulle spalle come il più pesante dei macigni: vietati i pettegolezzi e le storie su Asia e la figlia Anna Lou, favorita è la musica, vista anche come tramite salvifico, «da qui all’eternità».
Trentasette anni vissuti intensamente, Marco Castoldi in arte Morgan, non fa mistero mistero delle ferite, superate o in via di guarizione: intanto lo attende venerdì il debutto a Sarzana in apertura di «Sconfinando», festival ligure alla diciannovesima edizione. Accompagnato dalla Simphony Orchestra diretta dal maestro Marco Carcano («il ponte tra me e la musica classica, fin dai primi tempi dei Bluvertigo»), Morgan si propone in una veste inedita.
Partiamo dal concerto, Morgan??
«Aprirò con Ravel e chiuderò con Vivaldi: in mezzo le mie canzoni: quelle con i Bluvertigo, da ”Canzoni dell’appartamento”, da ”Italian songbook”, con il tributo ai massimi poeti e autori italiani, fino alla mia rilettura di ”Non al denaro non all’amore, né al cielo” di De Andrè. Credo che ci divertiremo e autorizzo il pubblico a darmi addosso, se non sarà soddisfatto: io ce la metto tutta perché noi amiamo la musica, siamo musica e abbiamo il dovere di servirla sempre al meglio».
Questa nuova avventura può essere vista come un antidoto o un rimedio alla fine di un anno complicato e critico oltre ogni immaginazione?
«In effetti non avrei mai pensato che mi piombassero addosso tutte queste cose in una volta, ma in fin dei conti mi considero una persona fortunata per tutto quello che ha avuto. La salute va meglio, un po’ per volta sistemeremo tutto e sono convinto che andra meglio di prima. Come per la voce che è molto cambiata dopo l’intervento alla corde vocali, per un tumore benigno che, ho scoperto un po’ per caso, mi portavo dietro da dieci, forse vent’anni. Si dice che bisogna fare di necessità virtù: appunto, ora canto in maniera diversa, non provo fatica e scriverò di conseguenza».
Quanto le dispiace aver dovuto interrompere l’esperienza tv di «X Factor» dopo le polemiche per la famigerata intervista sull’assunzione terapeutica di cocaina?
«Ci ho pensato e mi devo sentire contento per aver potuto giocare a lungo, divertendomi insieme a tanta gente, con l’unico mestiere, quello della musica, che mi appartiene davvero. Poi mi hanno buttato giù, ma questo è un altro discorso: peccato piuttosto che con l’esclusione da Sanremo la mia canzone ”La sera” sia stata così maltrattata e soffocata. Non se lo meritava: mi segue da cinque anni e ogni volta rinasce diversa, mutante anche ai miei occhi. La tv è qualcosa che avverto lontana: e in un mondo che in Africa o in Asia, tramite guerre più o meno ufficiali, dichiarate o no, produce migliaia di morti, chi se ne frega del talent show di Raidue! È acqua passata, io guardo al futuro».
In che direzione andrà ora?
«Detto che ormai i dischi e gli spettacoli dal vivo sono elementi di contorno per la carriera di un musicista, so che mi attende qualcosa di innovativo, rivoluzionario, con un progetto in cui sarà il pubblico, chi ascolta, a miscelare i tanti Morgan che esistono. Quello pop, quello classico, quello sperimentale, il cantautore o l’interprete che omaggia la storia. Metterò a disposizione una sorta di grande hard disk da cui prendere e mescolare la musica che mi rappresenta: quasi tutta, dunque. Poi continuerò con rispetto anche la mia missione più istituzionale e allora prepareremo un dvd del recital con l’orchestra e il secondo volume di ”Italian songbook”, in pratica è pronto. Ci ho messo alcune pagine assurdamente considerate minori di Endrigo, Bindi anni Settanta, la versione in inglese della ”Collina” di De Andrè, e ”Il gioco del cavallo a dondolo”, un pezzo ingiustamente misconosciuto di Roberto De Simone, tratto dal suo unico pezzo da cantautore».
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Re: Interviste agli artisti
Bellissima intervista. Un piacere come ragiona d'arte, la sua idea della commistione, del musicista che si fa organizzatore del caos sonoro in cui siamo immersi, del cambio di approccio al problema per uscire da empasse. Grazie Miniatina
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Re: Interviste agli artisti
minia lavorone!però gustosa e nutriente questa intervista!
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Re: Interviste agli artisti
Beh, ne approfitto: dimenticavo un'altra intervista recente, anche questa stranamente molto incentrata sul lavoro e sulla Musica (è per Rockol). Molto tecnica, a volte troppo, ci siamo interrogate a lungo sul significato reale di alcune cose... cosa bolle in pentola?
http://www.rockol.it/news-144468/Morgan-a-Rockol--'Torno-alla-musica.-Ecco-come...'
Morgan a Rockol: 'Torno alla musica. Ecco come...'
Una volta tanto, la notizia è una di quelle che fanno piacere: Morgan torna a dedicarsi alla sua musica. E’ quello che annuncia il comunicato stampa che presenta un mini-tour di cinque date in compagnia dell’Ensemble Symphony Orchestra, diretta dal Maestro Carlo Carcano, a cui si affiancheranno i musicisti Daniele Dupuis (basso), Sergio Carnevale (batteria), oltre allo stesso Morgan, impegnato al pianoforte, tastiere e clavicembalo. Intitolato “CON CERTO”, lo spettacolo verrà inaugurato al Festival “SCONFINANDO 2010” di Sarzana (provincia di La Spezia), dove debutterà il 9 luglio, per poi proseguire il 16 luglio a Cesenatico (FC), il 20 luglio a Roma, il 10 agosto a Lignano Sabbiadoro (UD) e il 27 agosto a Marina di Pietrasanta (LU). Al centro dello spettacolo, oltre all’esecuzione di alcune composizioni di musica classica, le canzoni del Morgan solista e quelle, di altri, contenute nella sua cover dell’album “Non al denaro, né all’amore né al cielo” di Fabrizio De André e nell’album di cover “Italian songbook vol.1”.
Quando risponde al telefono dalla sua casa-studio di Monza, trovo Morgan impegnato a riascoltare i nastri del suo tour invernale, quello effettuato in perfetta solitudine ma con la compagnia essenziale della tecnologia: il tour per “pianoforte, i-phone e computer”, come lo chiama lui, gli ha dato la possibilità di incentrare buona parte dello show sull’interazione, di volta in volta diversa, con il pubblico, appassionato all’idea di partecipare attivamente ad un “concert in progress”: "Riascoltando le registrazioni dei concerti mi sono accorto di avere dei dialoghi fantastici con il pubblico. Sono deliranti, surreali, il pubblico segue lo spettacolo con un’impostazione degna del miglior dadaismo. Di questi dialoghi mi piacerebbe fare un collage, ora. Del resto questa tournée è stata davvero unica, fatta di eventi irripetibili, divertente per me, che non ero costretto a fare mai lo stesso spettacolo, e per loro, che si rendevano conto che quello che stava succedendo era unico, succedeva una volta sola e solo per loro. Proprio come nella vita".
Un collage dei dialoghi tenuti con il pubblico. Per farne cosa?
"Io lavoro molto con le voci al computer. Cose dette in passato e che oggi andrebbero diffuse e amplificate. Penso all’orazione funebre di Moravia quando è morto Pier Paolo Pasolini, un documento preziosissimo, in cui vengono dette cose molto importanti. O alcune dichiarazioni televisive di Pasolini che andrebbero trascritte e considerate degli oracoli, così come alcuni pensieri affidati da Calvino ai fortunati giornalisti che hanno potuto avvicinarlo, oppure dichiarazioni di Carmelo Bene. Sono documenti memorabili, disponibili perché avvenuti in presenza di un microfono e oggi presenti in gran parte su Youtube. Il lavoro che faccio è integrarli con le mie canzoni nuove, che sono infarcite di voci. Poi mi piace manipolare la forma vocale, e quindi utilizzare anche voci di poeti, scrittori. Smonto le voci, o meglio smonto i loro discorsi e li ricostruisco. Fabbrico delle voci sintetiche costruite con i singoli fonemi di questi personaggi, ai quali però talvolta faccio dire quello che voglio io".
Quindi stai lavorando ad un nuovo album, finalmente…
"Diciamo che faccio tutto questo per un lavoro che sarà. Un lavoro che vedrà la luce attraverso dei suoi emissari che ne racconteranno le gesta, un disco che arriverà quando gli avranno preparato terreno fertile le sue emanazioni. E’ come se stessimo parlando di un tessuto molecolare. L’album sarà preceduto da alcune sue protuberanze, che sono simili a lui come tessuto e con le quali avrà un legame proteico. Stiamo parlando di un disco che si potrebbe chiamare “Utopia”, un lavoro per il quale sto esplorando l’idea di una sorta di intelligenza artificiale applicata alla musica e alla sua fruizione, e per la quale mi sento ormai a metà del lavoro".
Utopia, legame proteico, intelligenza artificiale…inizio a pensare di essermi perso qualcosa…
"E’ molto semplice, in realtà. In buona sostanza io fornirò una canzone con una chiave di ascolto, per cui la prima volta che la ascolti sarà come io volevo, mentre dalla seconda volta in poi sarà come tu vuoi: ne influenzerai l’andamento, la composizione, gli arrangiamenti, i timbri, il missaggio, le parole stesse. Creerai dei percorsi tra le canzoni e comporrai come vuoi la sequenza dell’album, perché sarà probabilmente o un’applicazione di i-phone o un sito, ma non sarà più un supporto rigido come il cd. Sarà comunque un album, fornito nella mia versione, chiamiamola “Utopia: Morgan release 1.1”, alla quale ognuno potrà affiancare la sua. Sarà un mio disco, ma potrà essere rielaborato da chiunque altro".
E come?
"Non servirà essere un musicista, basterà essere in grado di fornire degli impulsi. Ad esempio esporre il disco a determinate temperature, o dare degli impulsi ritmici percuotendo l’iPhone mediante il touch screen, o ancora, sempre mediante il touch, avere la possibilità di interagire con il brano nel momento in cui ti interessa e fargli prendere altre vie rispetto a quelle che sta percorrendo. Naturalmente tali possibilità saranno di numero finito, ma poiché è moltiplicando un numero finito che si ottiene l’esponenzialità, potremo dire che questo disco non è infinito ma gli si avvicina, ossia tende a “+infinito”. In questo senso l’album sarà finito proprio quando sarà completamente non finito, ossia sterminato nelle sue potenzialità. Mi segui?"
Ci provo… ma come si lavora ad un album del genere? Voglio dire, che tipo di lavoro stai facendo sulle canzoni?
"Beh, ad esempio in questo momento io ho davanti a me cinque monitor e tre computer. Sugli schermi dei monitor ho delle linee colorate, e i tre computer sono interfacciati con i cinque monitor come a comporre un circuito autosufficiente, in grado di sviluppare per ogni esecuzione di un brano un percorso nuovo ed originale rispetto alla precedente. Ogni volta che schiaccio il tasto “play” il brano parte e si sviluppa in un modo diverso ogni volta e quasi incontrollabile. E’ come avere a che fare con un organismo vivente, che se ne va dove vuole: a volte è meraviglioso, a volte è decisamente sbagliato, e allora devo intervenire sull’errore. Quindi di fatto in questo momento sto collezionando gli errori che fa questo disco…"
Temo di aver capito. Sei tornato a fare il musicista…
"Beh, sicuramente per un po’ sono stato lontano da questo mondo, che mi inebria e mi fa divertire molto, per non dire che è un terreno nel quale credo di aver sviluppato delle buone competenze. Il fatto di congegnare le canzoni, di inserirle in contesti meccanici, affinché siano legate da rapporti di relazione e di giustificazione, lo vivo come un gioco. Ci sono mille modi per arrivare a questo risultato, ma il mio mi permette di scoprire sempre territori nuovi, di divertirmi, e quindi di divertire il pubblico. Perché questo divertire, in realtà, viene dal latino “divertere” e vuol dire andare in un’altra direzione. Il divertimento, l’essere diverso, sono parole che hanno una radice nobile, destabilizzante, che si lega al fare qualcosa di differente da ciò che è canonico, percorrendo un’altra strada. Questo è quello che ti sorprende, che ti inebria, che ti fa anche pensare di vivere in modo avventuroso quello che hai scelto di fare e che rischieresti invece di fare in modo abitudinario e noioso e ripetitivo. Facendo così io mi rinnovo, perché mi piace quello che faccio, e ringrazio - non so chi perché sono ateo, però ringrazio qualcuno, o qualcosa o semplicemente il destino, o mia mamma – perché sono un essere umano consapevole e conscio che fa quello che gli piace".
Dopotutto, è pur sempre un privilegio importante, anche nei momenti difficili…
"Beh, appare evidente che non tutti lo fanno, alcuni perché non possono, altri perché non vogliono. Non viviamo circondati da gente che è felice per quello che fa e mi dispiace. I nostri politici ad esempio dovrebbero fare altro, si vede che non sono felici".
A proposito di politici, mi chiedevo se avessi seguito questa falsa polemica sull’inno d’Italia e mi sono chiesto quale sarebbe l’inno dell’Italia di Morgan…
"Per me l’Inno d’Italia è “l’uomo a metà” di Enzo Jannacci. Deve per forza essere quello, se non altro a livello di inno moderno, ascolta (la suona al piano mentre siamo al telefono). Cosa c’è di più bello di questo? E’ incredibile, e poi il testo è veramente importante. Se gli italiani avessero il coraggio – come fecero i nostri padri del Risorgimento – di scegliere un inno di un musicista di oggi, sarebbero uomini veri, vivi. Invece del “Va’ pensiero” o di “Fratelli d’Italia”, scegliete una canzone di un musicista di oggi, di un grande del nostro tempo! Siamo incapaci di intendere e di volere, questa è la realtà. Il dibattito non è tra l’inno di Mameli e il “Va’ pensiero”, il dibattito è se l’Italia è viva o morta".
Tornando a parlare della tua musica, il 9 luglio debutterai al Festival “Sconfinando” di Sarzana con uno spettacolo musicale intitolato “Con Certo”, che ti vede sul palco in compagnia di una grande orchestra. Cosa è successo?
"E’ successo che ho trovato un manager che si chiama Franz Cattini che è riuscito ad realizzare qualcosa che sognavo da tutta una vita, ossia far eseguire dal vivo le mie canzoni con gli arrangiamenti che avevo composto per le loro versioni di studio. Chi conosce i miei album sa benissimo che hanno un substrato orchestrale importante che, per motivi di budget, dal vivo ho sempre dovuto rimpiazzare con arrangiamenti che ne simulassero il ruolo. Questa volta avrò invece a disposizione un’orchestra sinfonica intera, grazie alla quale potremo finalmente ascoltare per la prima volta le canzoni di Morgan".
So che lo spettacolo si aprirà con un omaggio a Ravel…
"Sì, con il “Concerto in Sol Maggiore” di Ravel, che è per me una delle cose più belle scritte in tutta la storia della musica, uno dei momenti in cui si palesa la Grazia, e il ruolo quasi divino del musicista come tramite. E’ il primo brano della scaletta perché tutta la musica di oggi per me è partorita e generata da quella, si sprigiona da quel momento di santità musicale, e dico “santo” perché è moderno e antico nello stesso tempo. Parliamo di una composizione scritta in due tonalità diverse, e che quindi chiede all’interprete una compartimentazione della mente e dell’emozione: chi la suona deve dividersi in due, perché da una mano deve tirare fuori una tonalità e un ritmo e dall’altra un'altra tonalità e un altro ritmo. Quindi le due mani sono completamente non comunicanti, sovrappongono una situazione binaria che procede parallela e trova sempre un accordo. E’ come se fossero un uomo e una donna che viaggiano affiancati nella loro diversità e a tratti si incontrano sprigionando accordi. E’ un concetto quasi biblico, a pensarci".
E oltre a Ravel, cosa troveremo in “Con Certo”?
"Troveremo Vivaldi, sicuramente. E poi la musica di Morgan, quella delle “Canzoni dell’appartamento” e “Da A ad A” e che è sempre stata scritta per orchestre sinfoniche. Per il primo disco l’avevamo registrate in trasferta a Foggia, con l’orchestra del Teatro Umberto Giordano, mentre per “Da A ad A” avevo scritto tantissime cose, per la title-track, oltre a inserire l’orchestra in brani come “Amore assurdo”, Liebestod” e “Contro me stesso”, con partiture basate sul dialogo timbrico che è una cosa che ho imparato da Ravel. Come vedi il cerchio si chiude. Poi ci sarà spazio anche per un omaggio al De André di “Non al denaro…” e ai cantautori celebrati con “Italian Songbook vol.1” e anche a quelli che sono presenti sul secondo volume…"
..che però non mi risulta sia ancora uscito. E’ un progetto ancora in sospeso?
"No, ormai è pronto. Ne avevo ritardato la pubblicazione anzitutto per non farlo uguale al primo in termini di suono , e poi per inserirci anche “La sera”, il brano che avrei dovuto presentare a Sanremo e che ha richiesto veramente molto lavoro, proprio sul fronte dell’arrangiamento orchestrale. Ma poi saltata l’ipotesi sanremese il progetto si è arenato in seguito a quanto successo. Se ci ripenso… abbiamo provato “La sera” a Sanremo per ben tre volte, e gli orchestrali del Festival, gli stessi che hanno poi tirato gli spartiti per protesta in diretta tv, dopo averla eseguita si sono alzati in piedi e hanno gridato “bravò”, proprio così, alla francese…"
Ti senti vicino agli artisti celebrati in “Italian songbook vol.1” e nel suo seguito?
"E’ inevitabile. Tutti quelli che scrivono qualcosa con l’anima, con il sentimento, con il cuore… e con la mente, perché “sentono” la mente, e hanno la fragilità di esporsi nella loro verità umana, con tutti questi sono d’accordo. Non ci sono differenze stilistiche importanti quando si tocca la verità universale nel senso artistico del termine. C’è un solo modo per dire la bellezza, ed è per l’appunto nella parola. La bellezza è la bellezza, una cosa o è bella o non lo è, e quando uno fa una cosa bella mi piace, lo sento vicino, come se fosse mio padre e io vorrei essere suo figlio. Quando eseguo le canzoni di altri non lo faccio con presunzione. Il mio è un atto di umiltà e anche di divulgazione, perché nella posizione in cui sono riesco a far ascoltare della musica che altrimenti rimarrebbe poco conosciuta".
Ti riferisci al lavoro fatto durante “X Factor”?
"Dico che secondo me ho insegnato musica, non soltanto ad “X Factor”, ma anche all’Italia che guardava, ricevendo come ringraziamento un calcio in culo. Ma del resto la RAI, che una volta faceva servizio pubblico, ora è in una situazione di difficoltà, un po’ dettate dalla situazione politica, un po’ dalle conseguenze che da quella situazione discendono. Eppure ci sarebbe ancora bisogno di quel servizio pubblico: se ripenso alle trasmissioni con Alberto Lupo, al contributo dato alla RAI da personaggi come Giorgio Manganelli, un uomo che aveva inventato insieme a Guido Ceronetti, Umberto Eco, Alberto Arbasino, Italo Calvino, un format radio seguitissimo come “Le interviste impossibili”. Format peraltro di proprietà RAI e per il cui utilizzo la RAI non doveva pagare nessuno. Praticamente il contrario di quello che accade oggi"
Ti stai mettendo a disposizione della RAI, nonostante tutto?
"Io credo di essere stato fortunato. Mi hanno offerto un ruolo, ad “X Factor”, e io ho cercato di nobilitarlo. Credo che il pubblico lo abbia capito molto più dei vertici. Certo, finché mi cacciano con loro non posso parlare, ma visto che ho comunque un contratto di lavoro io rimango disponibile. Non è detto che debba tornare per forza a “X Factor”, ma credo di aver dimostrato quello che valgo quando lavoro con la musica".
A proposito di progetti in sospeso… non dovevate registrare un nuovo album con i Bluvertigo?
"Sì, e mi auguro che succederà. Pensavo che avrei potuto gestire l’alternanza tra i miei progetti solisti e quelli della band, ma in realtà non ne sono stato capace. Intanto è stato bellissimo tornare insieme per alcuni live, abbiamo dimostrato che la band è in grado di rimettersi sulla scena e di dare la m***a a quelle band di cazzoncelli che sanno fare solo tre accordi, perché noi veniamo dalla scuola di Roberti Fripp e Adrian Belew, i Talking Heads, riferimenti che oggi non senti neanche più nominare. Il nuovo album dei Bluvertigo è un progetto fantastico, musicalmente fresco come tutti i nostri dischi, con una follia bipolare, che è poi la solita idea schizofrenica del rock che nega se stesso ed è estremamente interessante, perché i Bluvertigo hanno veramente una capacità di andare da un estrema dolcezza a delle acidità pazzesche.. ho pensato a questi pezzi che sono adattissimi, poi bisogna vedere se nella pratica…"
…qual è l’ostacolo, questa volta?
"Il gruppo è come un matrimonio, e a volte capita di pensare di amare delle persone con cui però litighi quando le hai davanti. I matrimoni nella nostra società si rompono tanto, più del dovuto, e forse anche i gruppi respirano quest’atmosfera di separatismo. In questo momento io sono distante da loro e loro da me. Di conseguenza la band è lontana da se stessa"
E “Utopia”? Il tuo prossimo disco quando uscirà?
"Uscirà quando vuole lui, non quando voglio io. I dischi si fanno quando si hanno delle cose da dire, non si fanno per contratto o per rispettare delle scadenze. E quindi l’album nuovo uscirà quando se la sente, ossia quando il mondo sarà preparato per accoglierlo. In Italia adesso la mia realtà è una m***a, per cui a cosa servirebbe un nuovo disco? Sarebbe come regalare delle perle ai porci, e una volta tanto forse è meglio se me le risparmio".
http://www.rockol.it/news-144468/Morgan-a-Rockol--'Torno-alla-musica.-Ecco-come...'
Morgan a Rockol: 'Torno alla musica. Ecco come...'
Una volta tanto, la notizia è una di quelle che fanno piacere: Morgan torna a dedicarsi alla sua musica. E’ quello che annuncia il comunicato stampa che presenta un mini-tour di cinque date in compagnia dell’Ensemble Symphony Orchestra, diretta dal Maestro Carlo Carcano, a cui si affiancheranno i musicisti Daniele Dupuis (basso), Sergio Carnevale (batteria), oltre allo stesso Morgan, impegnato al pianoforte, tastiere e clavicembalo. Intitolato “CON CERTO”, lo spettacolo verrà inaugurato al Festival “SCONFINANDO 2010” di Sarzana (provincia di La Spezia), dove debutterà il 9 luglio, per poi proseguire il 16 luglio a Cesenatico (FC), il 20 luglio a Roma, il 10 agosto a Lignano Sabbiadoro (UD) e il 27 agosto a Marina di Pietrasanta (LU). Al centro dello spettacolo, oltre all’esecuzione di alcune composizioni di musica classica, le canzoni del Morgan solista e quelle, di altri, contenute nella sua cover dell’album “Non al denaro, né all’amore né al cielo” di Fabrizio De André e nell’album di cover “Italian songbook vol.1”.
Quando risponde al telefono dalla sua casa-studio di Monza, trovo Morgan impegnato a riascoltare i nastri del suo tour invernale, quello effettuato in perfetta solitudine ma con la compagnia essenziale della tecnologia: il tour per “pianoforte, i-phone e computer”, come lo chiama lui, gli ha dato la possibilità di incentrare buona parte dello show sull’interazione, di volta in volta diversa, con il pubblico, appassionato all’idea di partecipare attivamente ad un “concert in progress”: "Riascoltando le registrazioni dei concerti mi sono accorto di avere dei dialoghi fantastici con il pubblico. Sono deliranti, surreali, il pubblico segue lo spettacolo con un’impostazione degna del miglior dadaismo. Di questi dialoghi mi piacerebbe fare un collage, ora. Del resto questa tournée è stata davvero unica, fatta di eventi irripetibili, divertente per me, che non ero costretto a fare mai lo stesso spettacolo, e per loro, che si rendevano conto che quello che stava succedendo era unico, succedeva una volta sola e solo per loro. Proprio come nella vita".
Un collage dei dialoghi tenuti con il pubblico. Per farne cosa?
"Io lavoro molto con le voci al computer. Cose dette in passato e che oggi andrebbero diffuse e amplificate. Penso all’orazione funebre di Moravia quando è morto Pier Paolo Pasolini, un documento preziosissimo, in cui vengono dette cose molto importanti. O alcune dichiarazioni televisive di Pasolini che andrebbero trascritte e considerate degli oracoli, così come alcuni pensieri affidati da Calvino ai fortunati giornalisti che hanno potuto avvicinarlo, oppure dichiarazioni di Carmelo Bene. Sono documenti memorabili, disponibili perché avvenuti in presenza di un microfono e oggi presenti in gran parte su Youtube. Il lavoro che faccio è integrarli con le mie canzoni nuove, che sono infarcite di voci. Poi mi piace manipolare la forma vocale, e quindi utilizzare anche voci di poeti, scrittori. Smonto le voci, o meglio smonto i loro discorsi e li ricostruisco. Fabbrico delle voci sintetiche costruite con i singoli fonemi di questi personaggi, ai quali però talvolta faccio dire quello che voglio io".
Quindi stai lavorando ad un nuovo album, finalmente…
"Diciamo che faccio tutto questo per un lavoro che sarà. Un lavoro che vedrà la luce attraverso dei suoi emissari che ne racconteranno le gesta, un disco che arriverà quando gli avranno preparato terreno fertile le sue emanazioni. E’ come se stessimo parlando di un tessuto molecolare. L’album sarà preceduto da alcune sue protuberanze, che sono simili a lui come tessuto e con le quali avrà un legame proteico. Stiamo parlando di un disco che si potrebbe chiamare “Utopia”, un lavoro per il quale sto esplorando l’idea di una sorta di intelligenza artificiale applicata alla musica e alla sua fruizione, e per la quale mi sento ormai a metà del lavoro".
Utopia, legame proteico, intelligenza artificiale…inizio a pensare di essermi perso qualcosa…
"E’ molto semplice, in realtà. In buona sostanza io fornirò una canzone con una chiave di ascolto, per cui la prima volta che la ascolti sarà come io volevo, mentre dalla seconda volta in poi sarà come tu vuoi: ne influenzerai l’andamento, la composizione, gli arrangiamenti, i timbri, il missaggio, le parole stesse. Creerai dei percorsi tra le canzoni e comporrai come vuoi la sequenza dell’album, perché sarà probabilmente o un’applicazione di i-phone o un sito, ma non sarà più un supporto rigido come il cd. Sarà comunque un album, fornito nella mia versione, chiamiamola “Utopia: Morgan release 1.1”, alla quale ognuno potrà affiancare la sua. Sarà un mio disco, ma potrà essere rielaborato da chiunque altro".
E come?
"Non servirà essere un musicista, basterà essere in grado di fornire degli impulsi. Ad esempio esporre il disco a determinate temperature, o dare degli impulsi ritmici percuotendo l’iPhone mediante il touch screen, o ancora, sempre mediante il touch, avere la possibilità di interagire con il brano nel momento in cui ti interessa e fargli prendere altre vie rispetto a quelle che sta percorrendo. Naturalmente tali possibilità saranno di numero finito, ma poiché è moltiplicando un numero finito che si ottiene l’esponenzialità, potremo dire che questo disco non è infinito ma gli si avvicina, ossia tende a “+infinito”. In questo senso l’album sarà finito proprio quando sarà completamente non finito, ossia sterminato nelle sue potenzialità. Mi segui?"
Ci provo… ma come si lavora ad un album del genere? Voglio dire, che tipo di lavoro stai facendo sulle canzoni?
"Beh, ad esempio in questo momento io ho davanti a me cinque monitor e tre computer. Sugli schermi dei monitor ho delle linee colorate, e i tre computer sono interfacciati con i cinque monitor come a comporre un circuito autosufficiente, in grado di sviluppare per ogni esecuzione di un brano un percorso nuovo ed originale rispetto alla precedente. Ogni volta che schiaccio il tasto “play” il brano parte e si sviluppa in un modo diverso ogni volta e quasi incontrollabile. E’ come avere a che fare con un organismo vivente, che se ne va dove vuole: a volte è meraviglioso, a volte è decisamente sbagliato, e allora devo intervenire sull’errore. Quindi di fatto in questo momento sto collezionando gli errori che fa questo disco…"
Temo di aver capito. Sei tornato a fare il musicista…
"Beh, sicuramente per un po’ sono stato lontano da questo mondo, che mi inebria e mi fa divertire molto, per non dire che è un terreno nel quale credo di aver sviluppato delle buone competenze. Il fatto di congegnare le canzoni, di inserirle in contesti meccanici, affinché siano legate da rapporti di relazione e di giustificazione, lo vivo come un gioco. Ci sono mille modi per arrivare a questo risultato, ma il mio mi permette di scoprire sempre territori nuovi, di divertirmi, e quindi di divertire il pubblico. Perché questo divertire, in realtà, viene dal latino “divertere” e vuol dire andare in un’altra direzione. Il divertimento, l’essere diverso, sono parole che hanno una radice nobile, destabilizzante, che si lega al fare qualcosa di differente da ciò che è canonico, percorrendo un’altra strada. Questo è quello che ti sorprende, che ti inebria, che ti fa anche pensare di vivere in modo avventuroso quello che hai scelto di fare e che rischieresti invece di fare in modo abitudinario e noioso e ripetitivo. Facendo così io mi rinnovo, perché mi piace quello che faccio, e ringrazio - non so chi perché sono ateo, però ringrazio qualcuno, o qualcosa o semplicemente il destino, o mia mamma – perché sono un essere umano consapevole e conscio che fa quello che gli piace".
Dopotutto, è pur sempre un privilegio importante, anche nei momenti difficili…
"Beh, appare evidente che non tutti lo fanno, alcuni perché non possono, altri perché non vogliono. Non viviamo circondati da gente che è felice per quello che fa e mi dispiace. I nostri politici ad esempio dovrebbero fare altro, si vede che non sono felici".
A proposito di politici, mi chiedevo se avessi seguito questa falsa polemica sull’inno d’Italia e mi sono chiesto quale sarebbe l’inno dell’Italia di Morgan…
"Per me l’Inno d’Italia è “l’uomo a metà” di Enzo Jannacci. Deve per forza essere quello, se non altro a livello di inno moderno, ascolta (la suona al piano mentre siamo al telefono). Cosa c’è di più bello di questo? E’ incredibile, e poi il testo è veramente importante. Se gli italiani avessero il coraggio – come fecero i nostri padri del Risorgimento – di scegliere un inno di un musicista di oggi, sarebbero uomini veri, vivi. Invece del “Va’ pensiero” o di “Fratelli d’Italia”, scegliete una canzone di un musicista di oggi, di un grande del nostro tempo! Siamo incapaci di intendere e di volere, questa è la realtà. Il dibattito non è tra l’inno di Mameli e il “Va’ pensiero”, il dibattito è se l’Italia è viva o morta".
Tornando a parlare della tua musica, il 9 luglio debutterai al Festival “Sconfinando” di Sarzana con uno spettacolo musicale intitolato “Con Certo”, che ti vede sul palco in compagnia di una grande orchestra. Cosa è successo?
"E’ successo che ho trovato un manager che si chiama Franz Cattini che è riuscito ad realizzare qualcosa che sognavo da tutta una vita, ossia far eseguire dal vivo le mie canzoni con gli arrangiamenti che avevo composto per le loro versioni di studio. Chi conosce i miei album sa benissimo che hanno un substrato orchestrale importante che, per motivi di budget, dal vivo ho sempre dovuto rimpiazzare con arrangiamenti che ne simulassero il ruolo. Questa volta avrò invece a disposizione un’orchestra sinfonica intera, grazie alla quale potremo finalmente ascoltare per la prima volta le canzoni di Morgan".
So che lo spettacolo si aprirà con un omaggio a Ravel…
"Sì, con il “Concerto in Sol Maggiore” di Ravel, che è per me una delle cose più belle scritte in tutta la storia della musica, uno dei momenti in cui si palesa la Grazia, e il ruolo quasi divino del musicista come tramite. E’ il primo brano della scaletta perché tutta la musica di oggi per me è partorita e generata da quella, si sprigiona da quel momento di santità musicale, e dico “santo” perché è moderno e antico nello stesso tempo. Parliamo di una composizione scritta in due tonalità diverse, e che quindi chiede all’interprete una compartimentazione della mente e dell’emozione: chi la suona deve dividersi in due, perché da una mano deve tirare fuori una tonalità e un ritmo e dall’altra un'altra tonalità e un altro ritmo. Quindi le due mani sono completamente non comunicanti, sovrappongono una situazione binaria che procede parallela e trova sempre un accordo. E’ come se fossero un uomo e una donna che viaggiano affiancati nella loro diversità e a tratti si incontrano sprigionando accordi. E’ un concetto quasi biblico, a pensarci".
E oltre a Ravel, cosa troveremo in “Con Certo”?
"Troveremo Vivaldi, sicuramente. E poi la musica di Morgan, quella delle “Canzoni dell’appartamento” e “Da A ad A” e che è sempre stata scritta per orchestre sinfoniche. Per il primo disco l’avevamo registrate in trasferta a Foggia, con l’orchestra del Teatro Umberto Giordano, mentre per “Da A ad A” avevo scritto tantissime cose, per la title-track, oltre a inserire l’orchestra in brani come “Amore assurdo”, Liebestod” e “Contro me stesso”, con partiture basate sul dialogo timbrico che è una cosa che ho imparato da Ravel. Come vedi il cerchio si chiude. Poi ci sarà spazio anche per un omaggio al De André di “Non al denaro…” e ai cantautori celebrati con “Italian Songbook vol.1” e anche a quelli che sono presenti sul secondo volume…"
..che però non mi risulta sia ancora uscito. E’ un progetto ancora in sospeso?
"No, ormai è pronto. Ne avevo ritardato la pubblicazione anzitutto per non farlo uguale al primo in termini di suono , e poi per inserirci anche “La sera”, il brano che avrei dovuto presentare a Sanremo e che ha richiesto veramente molto lavoro, proprio sul fronte dell’arrangiamento orchestrale. Ma poi saltata l’ipotesi sanremese il progetto si è arenato in seguito a quanto successo. Se ci ripenso… abbiamo provato “La sera” a Sanremo per ben tre volte, e gli orchestrali del Festival, gli stessi che hanno poi tirato gli spartiti per protesta in diretta tv, dopo averla eseguita si sono alzati in piedi e hanno gridato “bravò”, proprio così, alla francese…"
Ti senti vicino agli artisti celebrati in “Italian songbook vol.1” e nel suo seguito?
"E’ inevitabile. Tutti quelli che scrivono qualcosa con l’anima, con il sentimento, con il cuore… e con la mente, perché “sentono” la mente, e hanno la fragilità di esporsi nella loro verità umana, con tutti questi sono d’accordo. Non ci sono differenze stilistiche importanti quando si tocca la verità universale nel senso artistico del termine. C’è un solo modo per dire la bellezza, ed è per l’appunto nella parola. La bellezza è la bellezza, una cosa o è bella o non lo è, e quando uno fa una cosa bella mi piace, lo sento vicino, come se fosse mio padre e io vorrei essere suo figlio. Quando eseguo le canzoni di altri non lo faccio con presunzione. Il mio è un atto di umiltà e anche di divulgazione, perché nella posizione in cui sono riesco a far ascoltare della musica che altrimenti rimarrebbe poco conosciuta".
Ti riferisci al lavoro fatto durante “X Factor”?
"Dico che secondo me ho insegnato musica, non soltanto ad “X Factor”, ma anche all’Italia che guardava, ricevendo come ringraziamento un calcio in culo. Ma del resto la RAI, che una volta faceva servizio pubblico, ora è in una situazione di difficoltà, un po’ dettate dalla situazione politica, un po’ dalle conseguenze che da quella situazione discendono. Eppure ci sarebbe ancora bisogno di quel servizio pubblico: se ripenso alle trasmissioni con Alberto Lupo, al contributo dato alla RAI da personaggi come Giorgio Manganelli, un uomo che aveva inventato insieme a Guido Ceronetti, Umberto Eco, Alberto Arbasino, Italo Calvino, un format radio seguitissimo come “Le interviste impossibili”. Format peraltro di proprietà RAI e per il cui utilizzo la RAI non doveva pagare nessuno. Praticamente il contrario di quello che accade oggi"
Ti stai mettendo a disposizione della RAI, nonostante tutto?
"Io credo di essere stato fortunato. Mi hanno offerto un ruolo, ad “X Factor”, e io ho cercato di nobilitarlo. Credo che il pubblico lo abbia capito molto più dei vertici. Certo, finché mi cacciano con loro non posso parlare, ma visto che ho comunque un contratto di lavoro io rimango disponibile. Non è detto che debba tornare per forza a “X Factor”, ma credo di aver dimostrato quello che valgo quando lavoro con la musica".
A proposito di progetti in sospeso… non dovevate registrare un nuovo album con i Bluvertigo?
"Sì, e mi auguro che succederà. Pensavo che avrei potuto gestire l’alternanza tra i miei progetti solisti e quelli della band, ma in realtà non ne sono stato capace. Intanto è stato bellissimo tornare insieme per alcuni live, abbiamo dimostrato che la band è in grado di rimettersi sulla scena e di dare la m***a a quelle band di cazzoncelli che sanno fare solo tre accordi, perché noi veniamo dalla scuola di Roberti Fripp e Adrian Belew, i Talking Heads, riferimenti che oggi non senti neanche più nominare. Il nuovo album dei Bluvertigo è un progetto fantastico, musicalmente fresco come tutti i nostri dischi, con una follia bipolare, che è poi la solita idea schizofrenica del rock che nega se stesso ed è estremamente interessante, perché i Bluvertigo hanno veramente una capacità di andare da un estrema dolcezza a delle acidità pazzesche.. ho pensato a questi pezzi che sono adattissimi, poi bisogna vedere se nella pratica…"
…qual è l’ostacolo, questa volta?
"Il gruppo è come un matrimonio, e a volte capita di pensare di amare delle persone con cui però litighi quando le hai davanti. I matrimoni nella nostra società si rompono tanto, più del dovuto, e forse anche i gruppi respirano quest’atmosfera di separatismo. In questo momento io sono distante da loro e loro da me. Di conseguenza la band è lontana da se stessa"
E “Utopia”? Il tuo prossimo disco quando uscirà?
"Uscirà quando vuole lui, non quando voglio io. I dischi si fanno quando si hanno delle cose da dire, non si fanno per contratto o per rispettare delle scadenze. E quindi l’album nuovo uscirà quando se la sente, ossia quando il mondo sarà preparato per accoglierlo. In Italia adesso la mia realtà è una m***a, per cui a cosa servirebbe un nuovo disco? Sarebbe come regalare delle perle ai porci, e una volta tanto forse è meglio se me le risparmio".
miniatina- Utente... preoccupante >10.000 Post
- Messaggi : 10487
Data d'iscrizione : 29.12.09
Re: Interviste agli artisti
questa l'avevamo inserito con Medea nel topo di castoldi, ma repetita juvant anche di qua perchè è esattamente il genere di interviste che ti lasciano informazioni sulle quali poter ragionare di creatività e arte.
lepidezza- Utente... preoccupante >10.000 Post
- Messaggi : 15123
Data d'iscrizione : 30.09.09
Re: Interviste agli artisti
Seguo il consiglio e riposto qui l'intervista a Prince
del "Courrier international"
5 ORE CON PRINCE
"Dovrebbe saltare sul primo aereo, è pronto per accordarle un'intervista per domani."
Prince non è più stato sotto i riflettori negli ultimi anni, ma nulla è cambiato.
Il leggendario musicista pop è ancora oggi imprevedibile.
Sono
settimane che cerchiamo di organizzare questo incontro, ed ecco che nel
momento io cui mi convinco che la cosa non andrà in porto, mi arriva
questa e-mail del suo manager.
"Spiacente, ma queste sono le condizioni. Prendere o lasciare, buona fortuna!"
Quando,
32 ore dopo all'aeroporto di Minneapolis, nello stato del Minnesota,
riaccendo il mio cellulare, mi arrivano nuove istruzioni.
"Ti
verranno a prendere oggi pomeriggio al tuo albergo: è bene che tu sappia
che è severamente vietato scattare foto e registrare l'incontro. Dovrai
inoltre consegnare il tuo cellulare."
Accidenti!
Le regole sono le stesse delle altre volte, e qui ho la piena certezza che niente è cambiato!
Le rare persone che sono riuscite ad entrare nel santuario di Prince, non ne sono certo uscite con un trofeo.
Nessuna foto per provarlo, nessuna registrazione.
Per
quelli che possono averlo dimenticato, non c'è nulla di più misterioso
di Prince: questo enigmatico personaggio concede molto raramente delle
interviste.
Ai fasti dlla sua gloria, all'epoca dei classici della
musica pop come Purple Rain (1984) e Sign of the time (1987), questo ha
fatto si che su di lui uscissero storie e voci che hanno poi avuto una
"vita propria".
E' ormai diventato impossibile scindere il vero dal falso.
Prince, l'uomo che non dormiva mai e che lavorava senza tregua.
Prince, l'uomo che seduceva una donna dopo l'altra.
Prince, l'uomo che metteva alla porta i suoi musicisti senza delicatezza.
Prince,
l'uomo che teneva nascosto nel suo studio di Paisley Park un vero
tesoro di registrazioni, tra cui delle sessioni con il leggendario Miles
Davis.
Ed ecco che io sono autorizzato ad incontrare Prince.
La mia più grande sorpresa è che arriva prima del previsto.
Shelby, la donna che viene a prendermi all'hotel è una delle sue coriste.
Lei
mi accompagna fino all'entrata laterale dell'impersonale complesso
bianco che è il quartier generale di Prince: una costruzione grande come
uno studio cinematografico, ai bordi di una grande strada.
Una volta all'interno, Shelby sparisce dietro una porta e la sento dire: "Lo faccio entrare?"
E, prima che io abbia avuto il tempo di rendermene conto, mi trovo davanti a lui.
Un attimo!
Non avrei dovuto incontrare prima dieci manager e venti responsabili delle relazioni pubbliche?
Non è forse quello a cui sono abituati tutti i personaggi di un certo calibro?
No.
Un Prince sorridente mi tende la mano: "Come va?"
Io cerco di ricominciare a respirare e a concentrarmi.
Sì, lui è effettivamente piccolo.
Indossa
dei vestiti curiosi: delle scarpe bianche, ampi pantaloni bianchi, un
gilet bianco senza maniche su una camicia verde a maniche larghe.
"Quello che ti propongo è di ascoltare i miei nuovi pezzi", mi dice con una voce che passa in un istante dalla tonalità grave a quella acuta.
Mi
indica uno sgabello in un angolo dell'impressionante sala di controllo
del suo studio di registrazione e mi mette delle cuffie sulle orecchie.
"E' così che preferisco ascoltarla", mi dice, "con la musica sia nelle casse che nelle cuffie".
Guarda il mio taccuino: "A casa tua io non prenderei degli appunti. Non sarei naturale. Ascolta e goditela."
Schiaccia 'Play' e sparisce.
Io mi ritrovo là.
Solo.
Nel cuore dell'universo di Prince.
Il posto dove tutto accade.
Qua e là ci sono candele accese.
Sul
tavolo di mixaggio vedo il simbolo che usava negli anni in cui non
voleva più essere chiamato Prince, quando aveva problemi con la sua casa
discografica.
Un po' più lontano c'è un grosso dizionario.
Anche i genii hanno bisogno di aiuto.
Nelle mie orecchie suona una musica.
E che musica!
Io mi aspetavo un Cd pieno di cose mediocri, come tante ne ha fatte negli ultimi anni.
Ma questa è della buona musica!
Molto buona.
Ascolto
dei pezzi e dei suoni che mi riportano all'epoca in cui il mondo intero
era sotto lo charme di questo musicista così innovativo.
Inizio a sorridere e senza rendermene conto inizio a ballare.
Mi trattengo subito perchè sono convinto che lui ha una telecamera da cui mi può vedere, restando in un altro posto.
Shelby riappare bruscamente.
"Vieni", mi dice.
Mi precede attraverso un corridoio con i muri ricoperti di dischi e che sbuca in una sorta di salone.
E' l'ora della seconda sorpresa.
Prince è seduto davanti ad un grande piano a coda, dallo stile tra il futurista e l'art-deco.
Shelby mi fa sedere su una sedia e raggiunge, a fianco del piano, altre due ragazze vestite completamente di nero.
No! Non è vero!
E invece sì!
Prince inizia a suonare e loro saltano con disinvoltura a 'Diamond and Pearls'.
Io sono stupefatto.
Poi 'Nothing compares to you'.
Io mi do dei pizzicotti.
"Che cosa ti piacerebbe sentire?", mi domanda improvvisamente.
Il nulla..., ma riesco malgrado tutto a formulare un'idea: "Sometimes it snows in April".
Mi sento fortunato.
Loro (le coriste) non rientrano in questo lento brano di 'Parade', l'album da cui è tratta Kiss.
In altre parole le ragazze restano in silenzio e io rimango da solo con Prince che improvvisa su accordi jazz.
"Merci". E' tutto quello che riesco a spiccicare quando ha finito.
"Di niente", mi risponde sorridendo.
Io noto improvvisamente la dolcezza dei suoi occhi neri e timidi, e l'imbarazzo che tradisce il suo piccolo broncio.
"Andiamo, così parliamo un po'?"
Lui
tiene la porta per lasciarmi passare e porta sulla terrazza due sedie
con le ruote in metallo e le posiziona attorno ad un tavolo rotondo.
Ancora una volta mi domando dove sono i manager e i responsabili delle relazioni pubbliche.
Dov'è la classica persona, con il cronometro in mano, che mi avvisa quando mancano quindici minuti alla fine dell'incontro?
Com'è possibile che non ci sia nessuno in questo grande edificio?
Né una segretaria, né un guardiano?
Ma allo stesso tempo mi rendo conto che questa è la mia intervista.
Adesso.
Qui.
Cosa volevo chiedergli?
Da quale delle trecentocinquanta domande inizio?
"Scusa se non ti permetto di scrivere", si scusa. "Non ho niente in contrario a parlare con te, ma semplicemente non amo le citazioni."
Io inizio a pensare, pur essendo stressato, che questo Prince è un bravo ragazzo.
"Un attimo", mi dice, "vado a prendere una bottiglia d'acqua".
Perchè ha deciso improvvisamente di fare una breve tourné in Europa?
"Semplicemente perchè mi hanno fatto una proposta che difficilmente avrei potuto rifiutare", mi risponde sorridendo.
Sostanzialmente non resiste al richiamo delle "sirene dei soldi"
Dato che non so quanto tempo mi rimane, formulo velocemente la domanda successiva su MJ.
E'
curioso che Michael Jackson, la star alla quale sei stato a lungo
contrapposto non ci sia più. Michael l'angelo, Prince il piccolo
demonio.
La sua risposta, accompagnata da un sorriso, è cortissima:"Prossima domanda".
Mi complimento con lui per i suoi nuovi pezzi.
"E' un vecchio trucco", mi dice sorridendo.
"Io
ho già tre album pronti. Sai cosa mi fa arrabbiare? Sono le persone che
dicono -Prince? Ah, sì, mi ricordo di lui quando era al top della sua
carriera!- E' assurdo! La musica è la mia vita. E' il mio mestiere. Io
continuo a lavorare e a migliorare."
"Sono migliorato molto come chitarrista. Quando ascolto i miei vecchi dischi, mi vergogno di come suonavo all'epoca", spiega.
"Ricordo
ancora di quando mio padre, lui stesso musicista, mi ha presentato Duke
Ellington. Era già molto avanti nella sua carriera. Io non potevo
vedere il leggendario Duke Ellington degli esordi, ma ho conosciuto un
Duke Ellington più maturo. Ho visto tutto quello di cui era capace, la
sua "tavolozza" completa.
Mio
padre ha formato la mia educazione sul piano musicale. Mi ha mostrato
quello che era importante per uno come Ellington. Mi ha trasmesso che
alla fine quello che è essenziale è la musica. Osserva bene, e troverai a
casa mia una "tavolozza" altrettanto vasta." aggiunge.
"Io
faccio musica costantemente. La mia testa ne è piena. E bisogna farla
uscire. E' come un magazzino. Capisci di cosa sto parlando? Si riprende a
respirare quando tutto è in ordine. La musica fa parte del mio DNA. E
quello che è curioso è che se una cosa che ho in testa non riesce a
venir fuori, io non riesco a connettere! Quando un artista fa troppi
tour consuma la sua energia. Io ho lo stesso problema nei periodi in cui
non suono e non registro. E' allora che mi prende un curioso stato di
affaticamento. La musica produce un sacco di effetti sulla gente. Senza
dimenticare il semplice fatto che dell'energia elettrica vi attraversa
il corpo. Una vita intera a suonare la chitarra ha prodotto qualcosa. Mi
sono convinto che se ho ancora tutti questi capelli è proprio grazie
all'elettricità".
Sorpreso alzo gli occhi verso di lui.
Nessuna traccia di sorriso.
Parlava seriamente.
Vorrei sapere qualcosa di più riguardo a questo grande enigma al quale lui stesso allude parlando della sua carriera.
Come mai un musicista talentuoso come Prince e così costantemente innovativo ha un fare da "randagio"?
Cito
a proposito Sting: "C'è stato un periodo in cui sentivo che quello che
facevo era in linea con il tempo che vivevo. Ogni ingranaggio era al suo
posto: tutto perfetto. Poi sono cambiate le cose, io non ero più nella
fase giusta, è tutto è diventato ben più complicato."
"Semplicemente dipende dall'universo che uno si è creato attorno", mi ribatte vagamente Prince.
"Non
esiste 'un'epoca'. Gli ingranaggi sono manovrati da chi controlla la
macchina. Quando un pezzo passa sovente in radio diventa una hit. Uno
come Sting può in qualunque momento della sua carriera creare una hit,
se il suo pezzo verrà trasmesso spesso. Io non amo il termine 'hit'. Non
per niente è stato inventato dai gangsters." (ride).
Bene, allora parliamo della musica di oggi.
Una volta disse che voleva dare uno scossone al mondo musicale in modo ottuso portando un po' di suspense e di 'pericolo'.
Cosa
pensa quando vede musicisti come Lady Gaga oggi? Non è che siamo un po'
al capolinea, in un mondo dove la musica non è più effervescente?
"Beh,
effettivamente negli anni 80 c'era un bel po' di eccitazione e di
'pericolo'. Poi è effettivamente diventato tutto troppo pericoloso con
eccessi di droga e di violenza nel mondo rap."
E ora?
"Tutto
nasce dalla 'music of nature'. Io cerco di essere tutt'uno con la
musica. In fin dei conti sto parlando di Geova. Bisogna andare dove si
trova Dio. E' così potente. C'è una pace incrollabile nella mia vita, ed
è una sensazione che cerco di trasmettere alla gente."
Noi ci siamo.
Malgrado tutto.
Ecco quello che ha dominato la sua vita negli ultimi anni: la fede.
Grazie al musicista Larry Graham è diventato testimone di Geova.
Cerco di convincerlo a raccontare che cosa gli insegnato tutto ciò.
"Non ne voglio parlare troppo." dice timidamente. "Se
vuoi ti posso dare dei libri dove potrai cercarti da solo delle
risposte. Ti potrei descrivere nei minimi dettagli la strada dove abito,
ma tu non potresti capire bene come se tu ti ci trovassi in mezzo.
Capisci?".
Io sono di altre vedute.
Cosa pensa quando vede
certe sue foto, ad esempio quella sulla copertina di Lovesexy, o quando
legge certe frasi oscene che scrisse in alcune sue canzoni di
quell'epoca?
Sorride.
"Io vivo nel presente e nell'immediato. Dovresti farlo anche tu. Hai l'aria di un bravo ragazzo!."
Improvvisamente
appaiono nel giardino, come uscite dal nulla, due persone che ci
raggiungono al nostro tavolo: una giapponese di una certa età e un uomo
con un badge al collo.
"Signore" dice quest'ultimo a Prince, con un
aria allarmata, "Ci potreste aiutare per favore? Questa signora è venuta
dal Giappone per trovare un signore che lavora qui. Avreste il suo
numero? Potreste chiamarlo per favore?".
Prince mi lancia uno sguardo malizioso e mi sussurra "Sembra divertente".
L'uomo risulta essere un taxista che ha condotto lì la giapponese direttamente dall'aeroporto.
"E come si chiama l'uomo che sta cercando?" domanda Prince.
"Prince" gli risponde il taxista.
"Prince?"
"Sì! Prince! Lo conoscete? Potreste contattarlo?"
La giapponese osserva la scena con aria confusa, e alla fine riesce a dire "Sono venuta dal giappone apposta per conoscervi".
In un secondo Prince sistema la situazione.
Chiama le coriste e chiede loro di trovare un albergo e il necessario per la giapponese.
Nuovamente mi lancia uno dei suoi sguardi.
"Non si ha il tempo di annoiarsi qui a Paisley Park!"
E
io mi domando una volta di più dove sono i manager e i responsabili
delle relazioni pubbliche e, in questo caso, dove sono gli agenti della
sicurezza.
A ben vedere la situazione parrebbe una buffonata surreale
e maledico tutto. Perchè è chiaro che l'incidente ha messo fine alla
mia intervista.
Tento un'ultima domanda, ma invano.
Prince entra nell'edificio, in una piccola cucina dove c'è uno schermo piatto.
"Vieni, vorrei mostrarti qualcosa".
Prende il telecomando e cerca un passaggio nel talk show di David Letterman che ha registrato.
"Che cosa ne pensi?"
Una giovane cantante di colore, incredibilmente energica appare sullo schermo: io resto a bocca aperta.
Il suo nome è Janelle Monae.
"Guarda,
finchè ci saranno delle cantanti come questa, io non ho di che
preoccuparmi. Ecco il mondo della musica oggi: tutti possono creare. Da
soli. A me ci sono voluti 15 anni per ottenere la mia libertà e per
disfarmi della casa discografica che mi paralizzava.
Nel
1995, dopo 15 anni, 'The most beautiful girl in the wold' è stato il
primo singolo che io ho realizzato come artista completamente libero.
Nel
2010 perchè si dovrebbe ancor passare attravero le grandi case
discografiche? Non si può far da soli? E' per questo che io propongo la
mia musica attraverso giornali e riviste. Dio è generoso, amorevole e
caritatevole. Bisogna agire come Dio, così è scritto. Le occasioni non
mancano."
Ok, ma perchè ha chiuso il suo sito internet?
"Internet è cosa obsoleta",risponde con una sorta di volta faccia."Perchè
dovrei ancora regalare dei nuovi lavori a iTunes? Si rifiutano di darmi
un anticipo e poi si arrabbiano perchè non hanno la mia musica. Ti
ricordi quando MTV era popolare? Poi, ad un certo punto, MTV è passata
di moda. E' la stessa cosa con internet. E' roba vecchia. Inoltre tutti
questi computers e tutti questi consigli digitali non hanno niente di
buono. Non fanno che riempirci la testa di cifre. E non può essere una
cosa positiva per la gente. Una volta avevo un tecnico audio che era
ossessionato dalle cifre, ma non ha lavorato qui a lungo. Io non risco
ad interagire con dei ragazzi così."
Ok, internet è roba vecchia.
Al momento ha deciso di distribuire il suo nuovo CD tramite la stampa.
Ma quale è il suo modello economico e come pensa al futuro?
Mi guarda dritto negli occhi e ride prima di dirmi "Te lo posso dire ma poi ti dovrei liquidare."
Mi da un colpetto sulla spalla e si avvia per il corridoio.
Io
lo guardo e penso a tutte le voci che hanno girato su di lui negli
ultimi tempi, a proposito dei suoi problemi alle anche che andrebbero
'rimpiazzate'.
Ma Prince non vuole essere operato perchè essendo
testimone di Geova non può fare trasfusioni. Non so cosa stia facendo in
merito, ma in ogni caso sembra a posto. Perchè quest'uomo non dimostra i
suoi 52 anni; è un giovane diciottenne, anche se indossa scarpe basse e
non i suoi eterni tacchi alti.
Mi rendo conto di aver la testa piena.
Troppe cose, troppi pensieri.
Esco dalla piccola cucina e vedo l'immenso simbolo di Prince sul pavimento piastrellato di bianco e nero.
Alzo gli occhi e vedo al primo piano una porta con a fianco la scritta 'knowledge'.
E' la stanza, o appartamento, dove sono sistemati tutti i suoi libri su Geova.
Ed emerge improvvisamente un nuovo Prince: distaccato e impersonale.
"Se non ti spiace vorrei ritirarmici un po'. Avrò un'altra intervista a breve."
Si conceda.
E io mi ritrovo fuori con la stessa velocità di come sono entrato.
Nella mia camera dell'hotel mi ripasso mentalmente quello che ho vissuto. Ma a metà mi addormento.
Sono circa le 22 quando il mio telefono suona.
E' Shelby.
"Dovresti venire subito allo studio. Prince da una piccola festa, sarà divertente."
Ma che cosa mi aspetta realmente?
Così,
poco dopo, mi trovo ancora una volta nel parcheggio di Paisley Park, ma
vi trovo parcheggiata solo una limousine bianca con i cerchi champagne.
Una festa?
E dove sono gli invitati?
La porta laterale si apre ed appare una donna vestita come per la cerimonia degli Oscar.
"Ancora un attimo di pazienza", mi dice sorridendo , poi sale sull'auto e se ne va.
Si apre un'altra porta e compare Prince.
"Per di qua".
E da questa porta mi trovo improvvisamente in un ambiente notturno.
Due enormi schermi fissati al muro trasmettono Prince che suona.
"E' il mio concerto al festival del jazz a Montreux dell'anno scorso"
Un po' più tardi arrivano anche le tre coriste con due vassoi: uno di verdura cruda, l'altro di frutta.
Mentre mi prendo un pezzo di mango, vedo che sul tavolo viene posato un libro delle Sacre Scritture.
Ci
raggiungono un uomo, che potrebbe essere un taxista, così come un
testimone di Geova, accompagnato dalla modella di prima, vestita
completamente di nero.
Prince me la presenta.
"Questa è Bria".
Certo, Bria Valente, la cantante dell'album Elixer di Lotus Flow3r uscito l'anno scorso.
La donna era la sua fidanzata.
Non potevo credere a quello che sarebbe successo.
Su una scala in un angolo della sala, Prince scivola dietro una postazione ed inizia a fare il VJ.
Sceglie degli spezzoni tratti da vecchie registrazioni di un programma televisivo chiamato 'Soul Train'.
Quando inizia a cantare Marvin Gaye, Prince toglie immediatamente il video esclamando "Playback! Vergogna!"
Quando Sly Stone appare con un costume troppo stretto, ci scherza su: "Sono io che ho inventato questi modelli".
Le donne iniziano a ballare.
Io mi sfrego gli occhi.
Queste sarebbero le feste che organizza Prince, la star mondiale?
Dove sono tutti?
Ma Prince è chiaramente a suo agio.
"Venite, vorrei farvi vedere altre cose."
Ed ecco che ci inoltriamo per i corridoi bui di questo enorme edificio vuoto.
Da
qualche parte in un angolo intravedo la moto usata nel film Purple
Rain, il grande fiore usato per Lovesexy, ed ancora dischi d'oro.
E quasi senza rendermene conto mi ritrovo nel grande studio dove questo pomeriggio tutto è iniziato.
E, mentre tutti ascoltiamo la musica, lui inizia ad improvvisare con il piano elettrico installato nello studio.
Un pezzo dopo l'altro.
Conclude
con la canzone che già mi sembrava particolare dal suo titolo e che ha
un ritornello che suona così 'Io amo tutti e tutti mi amano'.
E' surreale.
Lui in mezzo e noi tutti intorno come discepoli ad ascoltare le sue parole.
La situazione diventa ancora più incredibie.
Vuole continuare a suonare nel salone dove troneggia il pianoforte a coda.
Ma non arriva ad accendere le luci.
"Ok, allora andiamo nella sala grande."
Arriviamo così nella sala per concerti, con un parco ricoperto di strumenti.
"L'ho sempre sognato quando ero all'inizio della mia carriera, ed ho lavorato duro nella mia cantina", mi confida sorridendo.
Bria si posiziona al mixer, noi tutti saliamo sul palco.
Il piccolo mago si mette al piano e le coriste dietro ai loro microfoni.
Molti pezzi sono suonati a caso.
Poi Prince dice "Prendete tutti uno strumento!".
Io mi impossesso di due bacchette.
Inizia con 'Come together' dei Beatles.
Io batto sulle percussioni come posso e intanto penso: questo va oltre ogni immaginazione!
Un'intervista a Prince ha già dell'inconcepibile.
E adesso come posso raccontare che sono anche salito su un palco con lui?
E' una follia.
Ma non ho il tempo di pensare.
Tre parole mi fan tornare sulla terra: "Tu sei licenziato!" esclama Prince ridendo.
Poi tutto si dispiega come nel pomeriggio.
Improvvisamente ne ha abbastanza.
Cortesemente lui e Bria accompagnano tutti.
Prince mi posa le mani sulle spalle e si complimenta con me.
Faccio ancora un tentativo.
"Non posso fare foto?"
"E' meglio averlo in testa", mi risponde lui ridendo.
E mi ritrovo là, nell'oscurità, in un parcheggio deserto, accanto ad un grande edificio bianco.
Nella mia camera d'hotel, disteso sul letto, ho la testa che gira.
Avrei ancora tante domande da porgli.
Non è troppo solo?
Ma in fondo la mia risposta l'ho avuta, no?
Non lo so.
Non ho mai visto una superstar così da vicino.
Io ho incontrato l'artista, od ho assistito ad una bellissima opera teatrale?
Niente foto, nessuna registrazione con la sua voce, soltanto una testa piena di ricordi...e una bottiglia d'acqua.
Nessuno mi vorrà credere.
del "Courrier international"
5 ORE CON PRINCE
"Dovrebbe saltare sul primo aereo, è pronto per accordarle un'intervista per domani."
Prince non è più stato sotto i riflettori negli ultimi anni, ma nulla è cambiato.
Il leggendario musicista pop è ancora oggi imprevedibile.
Sono
settimane che cerchiamo di organizzare questo incontro, ed ecco che nel
momento io cui mi convinco che la cosa non andrà in porto, mi arriva
questa e-mail del suo manager.
"Spiacente, ma queste sono le condizioni. Prendere o lasciare, buona fortuna!"
Quando,
32 ore dopo all'aeroporto di Minneapolis, nello stato del Minnesota,
riaccendo il mio cellulare, mi arrivano nuove istruzioni.
"Ti
verranno a prendere oggi pomeriggio al tuo albergo: è bene che tu sappia
che è severamente vietato scattare foto e registrare l'incontro. Dovrai
inoltre consegnare il tuo cellulare."
Accidenti!
Le regole sono le stesse delle altre volte, e qui ho la piena certezza che niente è cambiato!
Le rare persone che sono riuscite ad entrare nel santuario di Prince, non ne sono certo uscite con un trofeo.
Nessuna foto per provarlo, nessuna registrazione.
Per
quelli che possono averlo dimenticato, non c'è nulla di più misterioso
di Prince: questo enigmatico personaggio concede molto raramente delle
interviste.
Ai fasti dlla sua gloria, all'epoca dei classici della
musica pop come Purple Rain (1984) e Sign of the time (1987), questo ha
fatto si che su di lui uscissero storie e voci che hanno poi avuto una
"vita propria".
E' ormai diventato impossibile scindere il vero dal falso.
Prince, l'uomo che non dormiva mai e che lavorava senza tregua.
Prince, l'uomo che seduceva una donna dopo l'altra.
Prince, l'uomo che metteva alla porta i suoi musicisti senza delicatezza.
Prince,
l'uomo che teneva nascosto nel suo studio di Paisley Park un vero
tesoro di registrazioni, tra cui delle sessioni con il leggendario Miles
Davis.
Ed ecco che io sono autorizzato ad incontrare Prince.
La mia più grande sorpresa è che arriva prima del previsto.
Shelby, la donna che viene a prendermi all'hotel è una delle sue coriste.
Lei
mi accompagna fino all'entrata laterale dell'impersonale complesso
bianco che è il quartier generale di Prince: una costruzione grande come
uno studio cinematografico, ai bordi di una grande strada.
Una volta all'interno, Shelby sparisce dietro una porta e la sento dire: "Lo faccio entrare?"
E, prima che io abbia avuto il tempo di rendermene conto, mi trovo davanti a lui.
Un attimo!
Non avrei dovuto incontrare prima dieci manager e venti responsabili delle relazioni pubbliche?
Non è forse quello a cui sono abituati tutti i personaggi di un certo calibro?
No.
Un Prince sorridente mi tende la mano: "Come va?"
Io cerco di ricominciare a respirare e a concentrarmi.
Sì, lui è effettivamente piccolo.
Indossa
dei vestiti curiosi: delle scarpe bianche, ampi pantaloni bianchi, un
gilet bianco senza maniche su una camicia verde a maniche larghe.
"Quello che ti propongo è di ascoltare i miei nuovi pezzi", mi dice con una voce che passa in un istante dalla tonalità grave a quella acuta.
Mi
indica uno sgabello in un angolo dell'impressionante sala di controllo
del suo studio di registrazione e mi mette delle cuffie sulle orecchie.
"E' così che preferisco ascoltarla", mi dice, "con la musica sia nelle casse che nelle cuffie".
Guarda il mio taccuino: "A casa tua io non prenderei degli appunti. Non sarei naturale. Ascolta e goditela."
Schiaccia 'Play' e sparisce.
Io mi ritrovo là.
Solo.
Nel cuore dell'universo di Prince.
Il posto dove tutto accade.
Qua e là ci sono candele accese.
Sul
tavolo di mixaggio vedo il simbolo che usava negli anni in cui non
voleva più essere chiamato Prince, quando aveva problemi con la sua casa
discografica.
Un po' più lontano c'è un grosso dizionario.
Anche i genii hanno bisogno di aiuto.
Nelle mie orecchie suona una musica.
E che musica!
Io mi aspetavo un Cd pieno di cose mediocri, come tante ne ha fatte negli ultimi anni.
Ma questa è della buona musica!
Molto buona.
Ascolto
dei pezzi e dei suoni che mi riportano all'epoca in cui il mondo intero
era sotto lo charme di questo musicista così innovativo.
Inizio a sorridere e senza rendermene conto inizio a ballare.
Mi trattengo subito perchè sono convinto che lui ha una telecamera da cui mi può vedere, restando in un altro posto.
Shelby riappare bruscamente.
"Vieni", mi dice.
Mi precede attraverso un corridoio con i muri ricoperti di dischi e che sbuca in una sorta di salone.
E' l'ora della seconda sorpresa.
Prince è seduto davanti ad un grande piano a coda, dallo stile tra il futurista e l'art-deco.
Shelby mi fa sedere su una sedia e raggiunge, a fianco del piano, altre due ragazze vestite completamente di nero.
No! Non è vero!
E invece sì!
Prince inizia a suonare e loro saltano con disinvoltura a 'Diamond and Pearls'.
Io sono stupefatto.
Poi 'Nothing compares to you'.
Io mi do dei pizzicotti.
"Che cosa ti piacerebbe sentire?", mi domanda improvvisamente.
Il nulla..., ma riesco malgrado tutto a formulare un'idea: "Sometimes it snows in April".
Mi sento fortunato.
Loro (le coriste) non rientrano in questo lento brano di 'Parade', l'album da cui è tratta Kiss.
In altre parole le ragazze restano in silenzio e io rimango da solo con Prince che improvvisa su accordi jazz.
"Merci". E' tutto quello che riesco a spiccicare quando ha finito.
"Di niente", mi risponde sorridendo.
Io noto improvvisamente la dolcezza dei suoi occhi neri e timidi, e l'imbarazzo che tradisce il suo piccolo broncio.
"Andiamo, così parliamo un po'?"
Lui
tiene la porta per lasciarmi passare e porta sulla terrazza due sedie
con le ruote in metallo e le posiziona attorno ad un tavolo rotondo.
Ancora una volta mi domando dove sono i manager e i responsabili delle relazioni pubbliche.
Dov'è la classica persona, con il cronometro in mano, che mi avvisa quando mancano quindici minuti alla fine dell'incontro?
Com'è possibile che non ci sia nessuno in questo grande edificio?
Né una segretaria, né un guardiano?
Ma allo stesso tempo mi rendo conto che questa è la mia intervista.
Adesso.
Qui.
Cosa volevo chiedergli?
Da quale delle trecentocinquanta domande inizio?
"Scusa se non ti permetto di scrivere", si scusa. "Non ho niente in contrario a parlare con te, ma semplicemente non amo le citazioni."
Io inizio a pensare, pur essendo stressato, che questo Prince è un bravo ragazzo.
"Un attimo", mi dice, "vado a prendere una bottiglia d'acqua".
Perchè ha deciso improvvisamente di fare una breve tourné in Europa?
"Semplicemente perchè mi hanno fatto una proposta che difficilmente avrei potuto rifiutare", mi risponde sorridendo.
Sostanzialmente non resiste al richiamo delle "sirene dei soldi"
Dato che non so quanto tempo mi rimane, formulo velocemente la domanda successiva su MJ.
E'
curioso che Michael Jackson, la star alla quale sei stato a lungo
contrapposto non ci sia più. Michael l'angelo, Prince il piccolo
demonio.
La sua risposta, accompagnata da un sorriso, è cortissima:"Prossima domanda".
Mi complimento con lui per i suoi nuovi pezzi.
"E' un vecchio trucco", mi dice sorridendo.
"Io
ho già tre album pronti. Sai cosa mi fa arrabbiare? Sono le persone che
dicono -Prince? Ah, sì, mi ricordo di lui quando era al top della sua
carriera!- E' assurdo! La musica è la mia vita. E' il mio mestiere. Io
continuo a lavorare e a migliorare."
"Sono migliorato molto come chitarrista. Quando ascolto i miei vecchi dischi, mi vergogno di come suonavo all'epoca", spiega.
"Ricordo
ancora di quando mio padre, lui stesso musicista, mi ha presentato Duke
Ellington. Era già molto avanti nella sua carriera. Io non potevo
vedere il leggendario Duke Ellington degli esordi, ma ho conosciuto un
Duke Ellington più maturo. Ho visto tutto quello di cui era capace, la
sua "tavolozza" completa.
Mio
padre ha formato la mia educazione sul piano musicale. Mi ha mostrato
quello che era importante per uno come Ellington. Mi ha trasmesso che
alla fine quello che è essenziale è la musica. Osserva bene, e troverai a
casa mia una "tavolozza" altrettanto vasta." aggiunge.
"Io
faccio musica costantemente. La mia testa ne è piena. E bisogna farla
uscire. E' come un magazzino. Capisci di cosa sto parlando? Si riprende a
respirare quando tutto è in ordine. La musica fa parte del mio DNA. E
quello che è curioso è che se una cosa che ho in testa non riesce a
venir fuori, io non riesco a connettere! Quando un artista fa troppi
tour consuma la sua energia. Io ho lo stesso problema nei periodi in cui
non suono e non registro. E' allora che mi prende un curioso stato di
affaticamento. La musica produce un sacco di effetti sulla gente. Senza
dimenticare il semplice fatto che dell'energia elettrica vi attraversa
il corpo. Una vita intera a suonare la chitarra ha prodotto qualcosa. Mi
sono convinto che se ho ancora tutti questi capelli è proprio grazie
all'elettricità".
Sorpreso alzo gli occhi verso di lui.
Nessuna traccia di sorriso.
Parlava seriamente.
Vorrei sapere qualcosa di più riguardo a questo grande enigma al quale lui stesso allude parlando della sua carriera.
Come mai un musicista talentuoso come Prince e così costantemente innovativo ha un fare da "randagio"?
Cito
a proposito Sting: "C'è stato un periodo in cui sentivo che quello che
facevo era in linea con il tempo che vivevo. Ogni ingranaggio era al suo
posto: tutto perfetto. Poi sono cambiate le cose, io non ero più nella
fase giusta, è tutto è diventato ben più complicato."
"Semplicemente dipende dall'universo che uno si è creato attorno", mi ribatte vagamente Prince.
"Non
esiste 'un'epoca'. Gli ingranaggi sono manovrati da chi controlla la
macchina. Quando un pezzo passa sovente in radio diventa una hit. Uno
come Sting può in qualunque momento della sua carriera creare una hit,
se il suo pezzo verrà trasmesso spesso. Io non amo il termine 'hit'. Non
per niente è stato inventato dai gangsters." (ride).
Bene, allora parliamo della musica di oggi.
Una volta disse che voleva dare uno scossone al mondo musicale in modo ottuso portando un po' di suspense e di 'pericolo'.
Cosa
pensa quando vede musicisti come Lady Gaga oggi? Non è che siamo un po'
al capolinea, in un mondo dove la musica non è più effervescente?
"Beh,
effettivamente negli anni 80 c'era un bel po' di eccitazione e di
'pericolo'. Poi è effettivamente diventato tutto troppo pericoloso con
eccessi di droga e di violenza nel mondo rap."
E ora?
"Tutto
nasce dalla 'music of nature'. Io cerco di essere tutt'uno con la
musica. In fin dei conti sto parlando di Geova. Bisogna andare dove si
trova Dio. E' così potente. C'è una pace incrollabile nella mia vita, ed
è una sensazione che cerco di trasmettere alla gente."
Noi ci siamo.
Malgrado tutto.
Ecco quello che ha dominato la sua vita negli ultimi anni: la fede.
Grazie al musicista Larry Graham è diventato testimone di Geova.
Cerco di convincerlo a raccontare che cosa gli insegnato tutto ciò.
"Non ne voglio parlare troppo." dice timidamente. "Se
vuoi ti posso dare dei libri dove potrai cercarti da solo delle
risposte. Ti potrei descrivere nei minimi dettagli la strada dove abito,
ma tu non potresti capire bene come se tu ti ci trovassi in mezzo.
Capisci?".
Io sono di altre vedute.
Cosa pensa quando vede
certe sue foto, ad esempio quella sulla copertina di Lovesexy, o quando
legge certe frasi oscene che scrisse in alcune sue canzoni di
quell'epoca?
Sorride.
"Io vivo nel presente e nell'immediato. Dovresti farlo anche tu. Hai l'aria di un bravo ragazzo!."
Improvvisamente
appaiono nel giardino, come uscite dal nulla, due persone che ci
raggiungono al nostro tavolo: una giapponese di una certa età e un uomo
con un badge al collo.
"Signore" dice quest'ultimo a Prince, con un
aria allarmata, "Ci potreste aiutare per favore? Questa signora è venuta
dal Giappone per trovare un signore che lavora qui. Avreste il suo
numero? Potreste chiamarlo per favore?".
Prince mi lancia uno sguardo malizioso e mi sussurra "Sembra divertente".
L'uomo risulta essere un taxista che ha condotto lì la giapponese direttamente dall'aeroporto.
"E come si chiama l'uomo che sta cercando?" domanda Prince.
"Prince" gli risponde il taxista.
"Prince?"
"Sì! Prince! Lo conoscete? Potreste contattarlo?"
La giapponese osserva la scena con aria confusa, e alla fine riesce a dire "Sono venuta dal giappone apposta per conoscervi".
In un secondo Prince sistema la situazione.
Chiama le coriste e chiede loro di trovare un albergo e il necessario per la giapponese.
Nuovamente mi lancia uno dei suoi sguardi.
"Non si ha il tempo di annoiarsi qui a Paisley Park!"
E
io mi domando una volta di più dove sono i manager e i responsabili
delle relazioni pubbliche e, in questo caso, dove sono gli agenti della
sicurezza.
A ben vedere la situazione parrebbe una buffonata surreale
e maledico tutto. Perchè è chiaro che l'incidente ha messo fine alla
mia intervista.
Tento un'ultima domanda, ma invano.
Prince entra nell'edificio, in una piccola cucina dove c'è uno schermo piatto.
"Vieni, vorrei mostrarti qualcosa".
Prende il telecomando e cerca un passaggio nel talk show di David Letterman che ha registrato.
"Che cosa ne pensi?"
Una giovane cantante di colore, incredibilmente energica appare sullo schermo: io resto a bocca aperta.
Il suo nome è Janelle Monae.
"Guarda,
finchè ci saranno delle cantanti come questa, io non ho di che
preoccuparmi. Ecco il mondo della musica oggi: tutti possono creare. Da
soli. A me ci sono voluti 15 anni per ottenere la mia libertà e per
disfarmi della casa discografica che mi paralizzava.
Nel
1995, dopo 15 anni, 'The most beautiful girl in the wold' è stato il
primo singolo che io ho realizzato come artista completamente libero.
Nel
2010 perchè si dovrebbe ancor passare attravero le grandi case
discografiche? Non si può far da soli? E' per questo che io propongo la
mia musica attraverso giornali e riviste. Dio è generoso, amorevole e
caritatevole. Bisogna agire come Dio, così è scritto. Le occasioni non
mancano."
Ok, ma perchè ha chiuso il suo sito internet?
"Internet è cosa obsoleta",risponde con una sorta di volta faccia."Perchè
dovrei ancora regalare dei nuovi lavori a iTunes? Si rifiutano di darmi
un anticipo e poi si arrabbiano perchè non hanno la mia musica. Ti
ricordi quando MTV era popolare? Poi, ad un certo punto, MTV è passata
di moda. E' la stessa cosa con internet. E' roba vecchia. Inoltre tutti
questi computers e tutti questi consigli digitali non hanno niente di
buono. Non fanno che riempirci la testa di cifre. E non può essere una
cosa positiva per la gente. Una volta avevo un tecnico audio che era
ossessionato dalle cifre, ma non ha lavorato qui a lungo. Io non risco
ad interagire con dei ragazzi così."
Ok, internet è roba vecchia.
Al momento ha deciso di distribuire il suo nuovo CD tramite la stampa.
Ma quale è il suo modello economico e come pensa al futuro?
Mi guarda dritto negli occhi e ride prima di dirmi "Te lo posso dire ma poi ti dovrei liquidare."
Mi da un colpetto sulla spalla e si avvia per il corridoio.
Io
lo guardo e penso a tutte le voci che hanno girato su di lui negli
ultimi tempi, a proposito dei suoi problemi alle anche che andrebbero
'rimpiazzate'.
Ma Prince non vuole essere operato perchè essendo
testimone di Geova non può fare trasfusioni. Non so cosa stia facendo in
merito, ma in ogni caso sembra a posto. Perchè quest'uomo non dimostra i
suoi 52 anni; è un giovane diciottenne, anche se indossa scarpe basse e
non i suoi eterni tacchi alti.
Mi rendo conto di aver la testa piena.
Troppe cose, troppi pensieri.
Esco dalla piccola cucina e vedo l'immenso simbolo di Prince sul pavimento piastrellato di bianco e nero.
Alzo gli occhi e vedo al primo piano una porta con a fianco la scritta 'knowledge'.
E' la stanza, o appartamento, dove sono sistemati tutti i suoi libri su Geova.
Ed emerge improvvisamente un nuovo Prince: distaccato e impersonale.
"Se non ti spiace vorrei ritirarmici un po'. Avrò un'altra intervista a breve."
Si conceda.
E io mi ritrovo fuori con la stessa velocità di come sono entrato.
Nella mia camera dell'hotel mi ripasso mentalmente quello che ho vissuto. Ma a metà mi addormento.
Sono circa le 22 quando il mio telefono suona.
E' Shelby.
"Dovresti venire subito allo studio. Prince da una piccola festa, sarà divertente."
Ma che cosa mi aspetta realmente?
Così,
poco dopo, mi trovo ancora una volta nel parcheggio di Paisley Park, ma
vi trovo parcheggiata solo una limousine bianca con i cerchi champagne.
Una festa?
E dove sono gli invitati?
La porta laterale si apre ed appare una donna vestita come per la cerimonia degli Oscar.
"Ancora un attimo di pazienza", mi dice sorridendo , poi sale sull'auto e se ne va.
Si apre un'altra porta e compare Prince.
"Per di qua".
E da questa porta mi trovo improvvisamente in un ambiente notturno.
Due enormi schermi fissati al muro trasmettono Prince che suona.
"E' il mio concerto al festival del jazz a Montreux dell'anno scorso"
Un po' più tardi arrivano anche le tre coriste con due vassoi: uno di verdura cruda, l'altro di frutta.
Mentre mi prendo un pezzo di mango, vedo che sul tavolo viene posato un libro delle Sacre Scritture.
Ci
raggiungono un uomo, che potrebbe essere un taxista, così come un
testimone di Geova, accompagnato dalla modella di prima, vestita
completamente di nero.
Prince me la presenta.
"Questa è Bria".
Certo, Bria Valente, la cantante dell'album Elixer di Lotus Flow3r uscito l'anno scorso.
La donna era la sua fidanzata.
Non potevo credere a quello che sarebbe successo.
Su una scala in un angolo della sala, Prince scivola dietro una postazione ed inizia a fare il VJ.
Sceglie degli spezzoni tratti da vecchie registrazioni di un programma televisivo chiamato 'Soul Train'.
Quando inizia a cantare Marvin Gaye, Prince toglie immediatamente il video esclamando "Playback! Vergogna!"
Quando Sly Stone appare con un costume troppo stretto, ci scherza su: "Sono io che ho inventato questi modelli".
Le donne iniziano a ballare.
Io mi sfrego gli occhi.
Queste sarebbero le feste che organizza Prince, la star mondiale?
Dove sono tutti?
Ma Prince è chiaramente a suo agio.
"Venite, vorrei farvi vedere altre cose."
Ed ecco che ci inoltriamo per i corridoi bui di questo enorme edificio vuoto.
Da
qualche parte in un angolo intravedo la moto usata nel film Purple
Rain, il grande fiore usato per Lovesexy, ed ancora dischi d'oro.
E quasi senza rendermene conto mi ritrovo nel grande studio dove questo pomeriggio tutto è iniziato.
E, mentre tutti ascoltiamo la musica, lui inizia ad improvvisare con il piano elettrico installato nello studio.
Un pezzo dopo l'altro.
Conclude
con la canzone che già mi sembrava particolare dal suo titolo e che ha
un ritornello che suona così 'Io amo tutti e tutti mi amano'.
E' surreale.
Lui in mezzo e noi tutti intorno come discepoli ad ascoltare le sue parole.
La situazione diventa ancora più incredibie.
Vuole continuare a suonare nel salone dove troneggia il pianoforte a coda.
Ma non arriva ad accendere le luci.
"Ok, allora andiamo nella sala grande."
Arriviamo così nella sala per concerti, con un parco ricoperto di strumenti.
"L'ho sempre sognato quando ero all'inizio della mia carriera, ed ho lavorato duro nella mia cantina", mi confida sorridendo.
Bria si posiziona al mixer, noi tutti saliamo sul palco.
Il piccolo mago si mette al piano e le coriste dietro ai loro microfoni.
Molti pezzi sono suonati a caso.
Poi Prince dice "Prendete tutti uno strumento!".
Io mi impossesso di due bacchette.
Inizia con 'Come together' dei Beatles.
Io batto sulle percussioni come posso e intanto penso: questo va oltre ogni immaginazione!
Un'intervista a Prince ha già dell'inconcepibile.
E adesso come posso raccontare che sono anche salito su un palco con lui?
E' una follia.
Ma non ho il tempo di pensare.
Tre parole mi fan tornare sulla terra: "Tu sei licenziato!" esclama Prince ridendo.
Poi tutto si dispiega come nel pomeriggio.
Improvvisamente ne ha abbastanza.
Cortesemente lui e Bria accompagnano tutti.
Prince mi posa le mani sulle spalle e si complimenta con me.
Faccio ancora un tentativo.
"Non posso fare foto?"
"E' meglio averlo in testa", mi risponde lui ridendo.
E mi ritrovo là, nell'oscurità, in un parcheggio deserto, accanto ad un grande edificio bianco.
Nella mia camera d'hotel, disteso sul letto, ho la testa che gira.
Avrei ancora tante domande da porgli.
Non è troppo solo?
Ma in fondo la mia risposta l'ho avuta, no?
Non lo so.
Non ho mai visto una superstar così da vicino.
Io ho incontrato l'artista, od ho assistito ad una bellissima opera teatrale?
Niente foto, nessuna registrazione con la sua voce, soltanto una testa piena di ricordi...e una bottiglia d'acqua.
Nessuno mi vorrà credere.
pannasmontata- Utente Residente: 150-500 Post
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Re: Interviste agli artisti
che intervista surreale.
"Non esiste 'un'epoca'. Gli ingranaggi sono manovrati da chi controlla la
macchina. Quando un pezzo passa sovente in radio diventa una hit. Uno
come Sting può in qualunque momento della sua carriera creare una hit,
se il suo pezzo verrà trasmesso spesso. Io non amo il termine 'hit'. Non
per niente è stato inventato dai gangsters."
"Non esiste 'un'epoca'. Gli ingranaggi sono manovrati da chi controlla la
macchina. Quando un pezzo passa sovente in radio diventa una hit. Uno
come Sting può in qualunque momento della sua carriera creare una hit,
se il suo pezzo verrà trasmesso spesso. Io non amo il termine 'hit'. Non
per niente è stato inventato dai gangsters."
lepidezza- Utente... preoccupante >10.000 Post
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Re: Interviste agli artisti
"Se il cinema è in crisi grazie alla televisione continuo a essere me stesso"
Abbiamo incontrato a Cannes l´attore, regista e produttore americano che sta per "invadere" pacificamente l´Europa con il suo Sundance Channel: dopo la Francia sarà la volta dell´Olanda, del Belgio e poi dell´Italia
CANNES - Robert Redford ha settantaquattro anni e non li dimostra. I capelli sono piuttosto lunghi e stabilmente biondi, solo sulle tempie sono diventati bianchi ma la loro presenza non è invadente e lo stesso Redford non sembra farci molto caso. Se non fosse per gli occhiali, che tradiscono una vista non più brillante, sarebbe davvero difficile credere che l´attore americano abbia passato la settantina e sia nonno orgoglioso di quattro nipoti. Del resto non ha alcuna intenzione di mettersi a riposo: attore, regista, produttore, direttore di festival e fondazioni, Redford è arrivato a Cannes per annunciare che il suo prossimo progetto è quello di invadere l´Europa, in maniera pacifica e culturale, con il suo canale televisivo, il Sundance Channel, figlio prediletto dell´omonimo festival che da molti anni è diventata la più importante vetrina del grande cinema indipendente americano. Da un anno il canale viene trasmesso in Francia. Tra qualche mese sarà la volta di Olanda e Belgio, poi tutti gli altri, Italia compresa, probabilmente su Sky.
Mr. Redford, cosa la spinge a lavorare così attivamente per la tv, il cinema non le piace più?
«No, davvero. Ma mentre il cinema vive un momento particolarmente difficile la televisione offre straordinarie opportunità. Un prodotto come Mad men lo dimostra, ma anche serie come The Wire o Breakin Bad. La televisione è cresciuta e raggiunge un pubblico completamente nuovo attraverso le nuove tecnologie. E questo ha reso possibili cose che prima non si potevano fare. Qualche anno fa c´erano solo i grande network, oggi ci sono centinaia di canali via cavo, c´è Internet, gli iPhone e gli iPad, la tv raggiunge il pubblico in mille modi diversi ed è più facile produrre contenuti interessanti e alternativi. Il cinema invece si muove in territori difficili, costosi, i soldi dominano il mercato e per la creatività c´è meno spazio. Così i talenti si sono diretti verso la tv, dov´è più facile sperimentare e dove si possono oramai raccontare storie complesse realizzate con grande qualità.
Perché ha scelto la Francia per cominciare?
«Le racconto un aneddoto personale. A 18 anni venni a studiare pittura in Francia. Era il 1957 e io volevo fare l´artista. Rimasi un anno, e in quel periodo viaggiai parecchio, con l´autostop, venni anche in Italia, a Firenze, andai in Svizzera, e molti di questi viaggi li feci durante l´inverno. Una notte arrivai, con il passaggio di un camion, a Cannes. Non avevo soldi, faceva freddo e non sapevo dove andare a dormire. Vidi il pontile del Ritz Carlton, un albergo magnifico, c´era la spiaggia sotto al pontile e pensai che se mi fossi coperto con un po´ di sabbia non avrei avuto freddo. Mi sistemai sotto al pontile e prima di addormentarmi vidi le luci dell´albergo, sentivo le risate della gente, la musica, immaginavo donne in abito da sera e uomini in Tuxedo, che avevano soldi e si divertivano. Pensavo che tutto doveva essere fantastico. Sedici anni dopo, quando mi invitarono per la prima volta al Festival di Cannes, mi ospitarono proprio al Ritz. E quando fui nella stanza, la sera, con indosso il mio Tuxedo, mi dissi che era andata davvero bene e che questo paese mi aveva aiutato a crescere e a diventare quello che sono».
Oggi come si definirebbe: attore, produttore, regista, organizzatore culturale, attivista?
«Ho cominciato come attore, mi piace fare l´attore. È vero, negli ultimi anni ho fatto molte altre cose: il lavoro con il Sundance, il festival, la fondazione, il canale televisivo, mi ha preso molto più tempo di quello che immaginavo, dirigere film è un impegno che dà molte soddisfazioni. Ma non c´è nulla che possa paragonarsi al mestiere dell´attore. Se vuoi esprimere i tuoi sentimenti devi recitare. Come regista dirigi molti strumenti, ma non suoni. E a me piace suonare...».
Allora tornerà presto sul set come attore? Sta lavorando a qualche nuovo progetto?
«Sì, ma sono superstizioso, e fino a quando non è finito non ne parlo».
Come regista ha da poco presentato a Toronto The conspirator, che racconta l´attentato al presidente Lincoln. È un film storico, ma al tempo stesso attuale...
«È stato eccezionale avere la possibilità di raccontare una storia del passato che ha tante similitudini con la storia di oggi. Ma non c´è stato bisogno di metterli in evidenza, erano già tutti contenuti nella storia stessa. Quello che io volevo fare era raccontare una vicenda più umana e personale».
Invecchiare le fa paura?
«Non mi sono mai fatto un gran problema dell´età. Credo che ogni fase della vita abbia pregi e difetti. Di certo molte delle cose che so fare adesso non le avrei sapute fare da giovane. Quindi mi accontento».
Con l´avanzata del 3D, l´arrivo di realtà nuove come Google e Apple, è ancora possibile essere «indipendenti» nel mondo dei media e dello spettacolo?
«Indipendenza è la parola più importante della mia vita. Scegliere e decidere, cercare la qualità e l´arte: è possibile solo se si è indipendenti. Certo i cambiamenti di mercato e tecnologici degli ultimi anni sono stati travolgenti, ed è difficile capire cosa accadrà domani. Ma io credo che un´esperienza come quella del Sundance dimostri non solo che si può fare, ma che c´è una larga fetta di pubblico desiderosa di film e programmi televisivi interessanti e originali. E questo è vero in tutto il mondo, per questo voglio portare il canale televisivo in molti altri paesi. E potremo avere successo solo se restiamo quello che siamo».
07/10/2010 - La Repubblica - ERNESTO ASSANTE
http://www.cinemagay.it/dosart.asp?ID=18937
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Re: Interviste agli artisti
http://temi.repubblica.it/iniziative-capossela/2012/02/21/intervista-parte-2/
L'INTERVISTA: di Ernesto Assante
Partiamo da una domanda stupida, tanto per gradire. Quale qualifica metteresti (o hai già messo) sul tuo biglietto da visita? Vinicio Capossela: ?
Ne ho avute diverse. Ricercatore di animali scomparsi, prototipo, pianista autistico, quando vivevo in auto. In quel periodo gli amici della ghenga mi regalarono una targa da applicare alla porta della casa che non avevo e ci fecero incidere sopra “dottore in rovinologia”. Poteva essere una qualifica pertinente perché mi hanno sempre interessato gli errori, come forma della più sincera manifestazione di se stessi, e più tardi mi hanno interessato anche le rovine. In senso archeologico e anche letterario, andare a lavorare sulle parole scritte sulla pietra. Ma personalmente preferisco la qualifica di prototipo. Collaudatore di prototipi. Almeno sul lavoro. Un prototipo è qualcosa che non si sa se funziona fino a che non la usi, e può sempre esploderti in mano o meravigliarti. Da un punto di vista umano mi definirei un filomythos. Un amico delle storie che destano meraviglia.
Che bambino era Vinicio? Pantaloni corti a lungo o pantaloni lunghi subito?
Da piccolo avevo tutto di una misura in più della mia, per via del risparmio, della previdenza. Vivevamo sempre con la preoccupazione di non farcela dunque ci si metteva un po’ avanti su tutto. Sono cresciuto in una comunità a cui non appartenevo veramente e a scuola non ho mai avuto una durevole capacità di concentrazione, dunque stavo sempre a metà nelle cose. Non ero mai a posto, mancava il fiocco nel grembiule, oppure c’erano macchie di inchiostro sul quaderno, ma non sono mai stato davvero come Spessotto, un compagno di prima elementare che aveva l’aria di starci benissimo senza il fiocco e imboscato nell’ultimo banco. Io come Giona, dormivo il mio sonno obbrobrioso evadendo il compito... Ma sapevo che il compito c’era, e anche il gran pesce che mi avrebbe inghiottito.
Hai sorelle, fratelli, molti zii, una famiglia numerosa?
Ho una sorella con cui sono cresciuto. E una famiglia molto numerosa in termini di zii, zie e cugini. Eravamo soggetti alla diaspora da subito, nati e cresciuti in diverse parti d’Europa, la Germania, la Svizzera, l’Emilia, l’Irpinia. Mi sono abituato da subito a vivere con questo senso di appartenenza portabile. Come una zolla attaccata ai piedi, ma solo la zolla. Però una zolla di terra antica. Le terre dei padri sono state fin dall’infanzia un luogo dell’immaginazione, abitato in una lingua, la lingua del dialetto e delle storie raccontate dai miei dopo il lavoro a casa, dalle mamme-nonne, dalle zie. Una intera mitologia omerica, fatta di separazione, di partenza, di nostos, nostalgia, di senso dell’onore e del disonore. Come crescersi un’Itaca nel cuore che non avremmo mai abitato, ma che avrei potuto ri-conoscere. Una comunità che ha fissato nel mio cuore il senso del ritorno e della perdita del ritorno. La nostra famiglia come un polipo che raduna i tentacoli si ricomponeva nel mese di agosto, quando nel paese dell’origine le strade si riempivano di macchine con targhe di tutta Europa. La comunità si ricostituiva nei matrimoni alla sala veglioni e come una creatura bradipa si avvolgeva intorno ai nuovi sposi digerendoli. Era bellissimo avere una famiglia estesa e molti cugini. I miei cugini che venivano dalla Germania li aspettavamo come si aspetta Babbo Natale. Con quelli che stavano nelle campagne dividevamo il letto, a testa e piedi. Parlavamo tutta la notte, mentre si sentiva il suono dei campanacci di vacca, laggiù all’aia falca. Avremmo potuto essere autarchici, se fossimo vissuti insieme. Ma si è cugini e fratelli solo a quell’età. Una volta mio padre incontrò Adriano Celentano, il suo idolo. Esaurì subito gli argomenti allora, al primo silenzio imbarazzante, gli venne di domandargli: a casa tutto bene? La moglie, i figli? E il suo idolo gli rispose : “Eh...i figli sono figli solo quando sono piccoli”. Così il cantante celebre e l’oscuro operaio scossero la testa assentendo, uniti dallo stesso destino di ingratitudine.
La passione di tuo padre per il fisarmonicista che porta il tuo nome è vera? È una passione che poi hai condiviso, o avresti voluto avere un nome diverso?
Mio padre mi chiamò così per via del kolossal “Quo vadis”, un filmone il cui titolo significa “dove te ne vai?”, e mi sembra emblematico. Nomen omen. Per affibbiarmi quel nome dovette litigare con suo padre, che per la stizza non venne nemmeno al battesimo. Disse “Che cazzo di nome, non c’è nemmeno sul calendario di Cristo”, e se ne uscì dalla chiesa. Inoltre mio padre aveva diversi coloratissimi 45 giri della Durium intitolati “Vinicio, fisarmonica e ritmi”. Gli piaceva la fisarmonica, amava molto la musica e trovava che quel nome avesse qualcosa di artistico. Ha avuto un tale coraggio nel mettermelo che non posso immaginare di avere nessun altro nome.
E la scuola? ti piaceva o no? La ricordi con piacere?
La scuola mi ha regalato una delle sensazioni più durevoli che ancora mi accompagnano: quella di essere ancora in giro coi compiti non fatti, quella gioia colpevole. Mi ha insegnato il vizio di rimandare, di perdere i giorni senza mai partire, contare i minuti e perdere i mesi. Ma questo più tardi. Da piccolo avevo una gran passione per gli accessori scolastici. Gli astucci per esempio, le gomme per cancellare. I quaderni. La mia materia preferita alle medie era “storia geografia e scienze”, e sono gli argomenti che mi hanno interessato anche dopo. Sono stato fortunato a fare le elementari in una scuola di campagna. Sentire il cambiamento delle stagioni, fare gite a raccogliere bacche. Capanne sugli alberi. Battaglie. “I ragazzi della via Pal” era il mio libro preferito. E alle medie fare una scuola in un vecchio edificio, che un tempo era stato un albergo d’inizio secolo. Cadeva a pezzi, ma era pieno di ragazzini che rombavano correndo giù dalle scale. Ed era nel centro del paese di fianco a un forno di cui ricordo bene il profumo dello “gnocchino” che ci compravamo a merenda. Ora a Scandiano hanno spostato la scuola all’altezza del centro commerciale. È a norma, piano terra, comoda per le macchine. Ma non credo sia la stessa cosa. La messa a norma spesso spazza via i luoghi della nostra storia.
Cosa ti ha “illuminato” prima, l’arte della parola o quella della musica?
La parola cantata, pronunciata da tua madre è già la prima musica. Dunque l’arte del racconto, ascoltare i grandi parlare, quello è il primo incanto. Ma se parliamo di libri, ho amato prima la musica. Ne ho subito il fascino fin da piccolo. Ai matrimoni in agosto rimanevo ore attaccato alla cassa d’amplificazione degli impianti Davoli, ammiravo fantasticante le lucine dei registri degli organi Farfisa. Subivo l’incantesimo dei tasti bianchi e neri, della plastica, dei colori simili a quelli delle automobili di famiglia, Simca, Fiat 128... Allora le macchine avevano colori entusiasmanti, come gli organi. Mi piacevano anche i cavi, gli amplificatori. Desideravo così tanto una tastiera che me la disegnai con un pennarello arancione sopra una tavola di legno. Su ogni tasto scrissi la sigla di un suono... plong bling bum. In bicicletta cantavo a squarciagola in una lingua inventata, che doveva scimmiottare l’inglese. Mi piacevano le cassette che ascoltava mio padre nel nostro registratore arancione “National Panasonic”: Carosone, Celentano, “Vinicio fisarmonica e ritmi”.
Quando hai iniziato a suonare,e cosa?
Avrei desiderato iniziare a suonare la fisarmonica. Oltre al fascino dei tasti c’era quello del mantice, e poi tutte le cromature, gli angoli in metallo... la madreperla dei bottoni... mi sembrava troppo chiederne una, così me ne restai zitto ad ammirarla nelle mani di Giacomo un ragazzino di molto talento che abitava di fronte a noi. Un pomeriggio a casa di una zia che aveva una tastiera Bontempi, mentre mia madre e mia zia chiacchieravano, mi misi a cercare di imparare qualcosa dal metodo Bontempi squadernato sull’organo. Il pezzo era “Il carnevale di Venezia”. La tastiera aveva i tasti numerati e in qualche modo dopo un po’ usci qualcosa di melodicamente comprensibile. Dunque a mia madre sembrò che avessi disposizione. Più tardi si decisero a comprarmi un organo elettronico. A quell’epoca avevo una vera repulsione per il pianoforte che trovavo triste come i vecchi palazzi ottocenteschi del centro storico di Reggio Emilia, e come gli sceneggiati con Alberto Lupo. Dunque comprammo questo organo e iniziai a prendere lezioni da un giovane diplomato che stava in una frazione vicina e che suonava il liscio. Ricordo con molta emozione la prima lezione, nella cucina con la stufa a legna di questa casa vecchia, la meraviglia e il desiderio di apprendere. Con un metodo empirico mi iniziò al metodo “Hanon, il pianista virtuoso”, e a un meraviglioso libro con pezzi ballabili molto semplici. Piccoli valzer, temi popolari e quelle furono le prime cose che imparai a suonare. Poi andai al conservatorio, ma li non c’era verso di suonare. Bisognava fare prima tre anni di teoria e solfeggio e al secondo anno, per il senso di colpa dei compiti estivi non fatti, non mi ripresentai più.
Sei uno di quelli che ha un rapporto d’amore con i suoi strumenti musicali? O sono solo “strumenti”, appunto?
Il mio innamoramento è stato materico. Era originato più dall’oggetto che dalle sue possibilità musicali. Provavo per gli strumenti a tasti l’attrazione che altri coetanei riservavano alle scarpette da calcio, alle biciclette, o ai pattini a rotelle. Organi e armonium esercitavano su di me un fascino paragonabile solo a quello delle illuminazioni natalizie. Forse facevano parte dello stesso mondo di fiaba. Da grande sono diventato più animista. Ho iniziato ad associare dei caratteri umani agli strumenti. Anche a partire dal loro aspetto e il campo della fascinazione ha travalicato gli strumenti a tasto. Si sono fatti scoprire mano mano gli ottoni, gli archi, gli strumenti a corda, quelli a percussione e poi tutti i prototipi. Uno strumento musicale è prima di tutto un’ invenzione, dunque una trovata d’ingegno. L’ingegno mi ha sempre interessato più del genio. Il genio ha a che fare col divino, l’ingegno è più umano. Gli inventori si ingegnano e la loro opera desta meraviglia. Il theremin, per esempio. Le onde Martinot, tutti gli strumenti meccanici, gli automi, sono invenzione prodigiose e nel loro timbro c’è una magia. Il timbro è il colore della musica, ed è una delle poche cose in cui si può cercare di essere personali. In musica, nella canzone si è già detto tutto, ma il timbro è una possibilità aperta. La sua ricerca ha a che fare con cose molto umane, la fortuna, la casualità dell’incontro, la curiosità e la socialità. È come trovare il fuoco di un bivacco, dopo avere attraversato la foresta del Klondike, solitario e infebbrato come un cercatore d’oro.
Quando hai scoperto la tua “vocazione”? Si è manifestata casualmente o hai deciso che doveva arrivare la “chiamata”?
Quando penso alla vocazione penso sempre ai sacerdoti... Ero attirato dalla musica , non dalle canzoni. I cantautori non mi interessavano, facevano parte di quel mondo serioso che comprendeva vecchi palazzi e pianoforti, non facevano parte del “Dio di mio padre”. Da ragazzi abbiamo messo in piedi un gruppo rock, l’abbiamo chiamato Hurricane. Cercavamo di fare innocentemente la musica disgustosa del nostro tempo, i vanagloriosi anni ’80. Più tardi conobbi una ragazza e me ne innamorai. Insieme provammo ad abitare delle canzoni da sognatori, e chiamammo il nostro duo “Blue Valentine”, in onore del principe dei sognatori della strada, l’orco di Pomona. L’accompagnavo suonando canzoni di Tenco, Weill, Waits, Edith Piaf... Poi ogni cosa si ruppe e rimasi da solo sul ciglio della strada, proprio come nelle canzoni che amavo e che tentavo di scrivere. A quel punto intuii quello che sarebbe stato il mio destino: l’artista pre-biografico, quello che prima scrive le cose e poi gli succedono veramente. Decisi di mettermi a disposizione di questa vocazione, con i mezzi di bordo che avevo. Un vecchio piano Fender pesantissimo da trasportare, un automezzo revisionato, molta solitudine e ancora qualche anno di gioventù davanti. Cercai ingaggi in ristoranti, birrerie, piano-bar, circoli, e iniziai a praticare. In un piano bar a Verona, dopo la prima settimana di ingaggio la proprietaria mi disse: “Può evitare di cantare? È sufficiente che suoni...”. Al mio primo concertino al circolo “Vienna” di Modena, un punk di cui distinsi soltanto gli anfibi se ne uscì al terzo pezzo e disse sputando a terra a me e al contrabbassista che tentava di accompagnarmi: “Siete la morte”. Questi e molti altri episodi del tempo del debutto fanno suonare appropriato il termine “vocazione”, qualcosa che ha a che fare con la viva testimonianza del martirio... E anche il termine “chiamata” è giusto. Rispondi alla chiamata e ti arruoli da volontario.
Ti definiresti un eccentrico?
E, se sì, credi che ci si nasca o ci si diventi?
Non sono un eccentrico, sono soltanto un tipo nervoso.
intervista davvero interessante. ne viene fuori un mondo che riconosco come i cugini attesi i matrimoni e il dormire testa e piedi.. compresa la musica degli anni 80 cui si riferisce!
assante riesce nell'impresa di farlo parlare e mi regala il ritratto di un uomo brillante.
L'INTERVISTA: di Ernesto Assante
Partiamo da una domanda stupida, tanto per gradire. Quale qualifica metteresti (o hai già messo) sul tuo biglietto da visita? Vinicio Capossela: ?
Ne ho avute diverse. Ricercatore di animali scomparsi, prototipo, pianista autistico, quando vivevo in auto. In quel periodo gli amici della ghenga mi regalarono una targa da applicare alla porta della casa che non avevo e ci fecero incidere sopra “dottore in rovinologia”. Poteva essere una qualifica pertinente perché mi hanno sempre interessato gli errori, come forma della più sincera manifestazione di se stessi, e più tardi mi hanno interessato anche le rovine. In senso archeologico e anche letterario, andare a lavorare sulle parole scritte sulla pietra. Ma personalmente preferisco la qualifica di prototipo. Collaudatore di prototipi. Almeno sul lavoro. Un prototipo è qualcosa che non si sa se funziona fino a che non la usi, e può sempre esploderti in mano o meravigliarti. Da un punto di vista umano mi definirei un filomythos. Un amico delle storie che destano meraviglia.
Che bambino era Vinicio? Pantaloni corti a lungo o pantaloni lunghi subito?
Da piccolo avevo tutto di una misura in più della mia, per via del risparmio, della previdenza. Vivevamo sempre con la preoccupazione di non farcela dunque ci si metteva un po’ avanti su tutto. Sono cresciuto in una comunità a cui non appartenevo veramente e a scuola non ho mai avuto una durevole capacità di concentrazione, dunque stavo sempre a metà nelle cose. Non ero mai a posto, mancava il fiocco nel grembiule, oppure c’erano macchie di inchiostro sul quaderno, ma non sono mai stato davvero come Spessotto, un compagno di prima elementare che aveva l’aria di starci benissimo senza il fiocco e imboscato nell’ultimo banco. Io come Giona, dormivo il mio sonno obbrobrioso evadendo il compito... Ma sapevo che il compito c’era, e anche il gran pesce che mi avrebbe inghiottito.
Hai sorelle, fratelli, molti zii, una famiglia numerosa?
Ho una sorella con cui sono cresciuto. E una famiglia molto numerosa in termini di zii, zie e cugini. Eravamo soggetti alla diaspora da subito, nati e cresciuti in diverse parti d’Europa, la Germania, la Svizzera, l’Emilia, l’Irpinia. Mi sono abituato da subito a vivere con questo senso di appartenenza portabile. Come una zolla attaccata ai piedi, ma solo la zolla. Però una zolla di terra antica. Le terre dei padri sono state fin dall’infanzia un luogo dell’immaginazione, abitato in una lingua, la lingua del dialetto e delle storie raccontate dai miei dopo il lavoro a casa, dalle mamme-nonne, dalle zie. Una intera mitologia omerica, fatta di separazione, di partenza, di nostos, nostalgia, di senso dell’onore e del disonore. Come crescersi un’Itaca nel cuore che non avremmo mai abitato, ma che avrei potuto ri-conoscere. Una comunità che ha fissato nel mio cuore il senso del ritorno e della perdita del ritorno. La nostra famiglia come un polipo che raduna i tentacoli si ricomponeva nel mese di agosto, quando nel paese dell’origine le strade si riempivano di macchine con targhe di tutta Europa. La comunità si ricostituiva nei matrimoni alla sala veglioni e come una creatura bradipa si avvolgeva intorno ai nuovi sposi digerendoli. Era bellissimo avere una famiglia estesa e molti cugini. I miei cugini che venivano dalla Germania li aspettavamo come si aspetta Babbo Natale. Con quelli che stavano nelle campagne dividevamo il letto, a testa e piedi. Parlavamo tutta la notte, mentre si sentiva il suono dei campanacci di vacca, laggiù all’aia falca. Avremmo potuto essere autarchici, se fossimo vissuti insieme. Ma si è cugini e fratelli solo a quell’età. Una volta mio padre incontrò Adriano Celentano, il suo idolo. Esaurì subito gli argomenti allora, al primo silenzio imbarazzante, gli venne di domandargli: a casa tutto bene? La moglie, i figli? E il suo idolo gli rispose : “Eh...i figli sono figli solo quando sono piccoli”. Così il cantante celebre e l’oscuro operaio scossero la testa assentendo, uniti dallo stesso destino di ingratitudine.
La passione di tuo padre per il fisarmonicista che porta il tuo nome è vera? È una passione che poi hai condiviso, o avresti voluto avere un nome diverso?
Mio padre mi chiamò così per via del kolossal “Quo vadis”, un filmone il cui titolo significa “dove te ne vai?”, e mi sembra emblematico. Nomen omen. Per affibbiarmi quel nome dovette litigare con suo padre, che per la stizza non venne nemmeno al battesimo. Disse “Che cazzo di nome, non c’è nemmeno sul calendario di Cristo”, e se ne uscì dalla chiesa. Inoltre mio padre aveva diversi coloratissimi 45 giri della Durium intitolati “Vinicio, fisarmonica e ritmi”. Gli piaceva la fisarmonica, amava molto la musica e trovava che quel nome avesse qualcosa di artistico. Ha avuto un tale coraggio nel mettermelo che non posso immaginare di avere nessun altro nome.
E la scuola? ti piaceva o no? La ricordi con piacere?
La scuola mi ha regalato una delle sensazioni più durevoli che ancora mi accompagnano: quella di essere ancora in giro coi compiti non fatti, quella gioia colpevole. Mi ha insegnato il vizio di rimandare, di perdere i giorni senza mai partire, contare i minuti e perdere i mesi. Ma questo più tardi. Da piccolo avevo una gran passione per gli accessori scolastici. Gli astucci per esempio, le gomme per cancellare. I quaderni. La mia materia preferita alle medie era “storia geografia e scienze”, e sono gli argomenti che mi hanno interessato anche dopo. Sono stato fortunato a fare le elementari in una scuola di campagna. Sentire il cambiamento delle stagioni, fare gite a raccogliere bacche. Capanne sugli alberi. Battaglie. “I ragazzi della via Pal” era il mio libro preferito. E alle medie fare una scuola in un vecchio edificio, che un tempo era stato un albergo d’inizio secolo. Cadeva a pezzi, ma era pieno di ragazzini che rombavano correndo giù dalle scale. Ed era nel centro del paese di fianco a un forno di cui ricordo bene il profumo dello “gnocchino” che ci compravamo a merenda. Ora a Scandiano hanno spostato la scuola all’altezza del centro commerciale. È a norma, piano terra, comoda per le macchine. Ma non credo sia la stessa cosa. La messa a norma spesso spazza via i luoghi della nostra storia.
Cosa ti ha “illuminato” prima, l’arte della parola o quella della musica?
La parola cantata, pronunciata da tua madre è già la prima musica. Dunque l’arte del racconto, ascoltare i grandi parlare, quello è il primo incanto. Ma se parliamo di libri, ho amato prima la musica. Ne ho subito il fascino fin da piccolo. Ai matrimoni in agosto rimanevo ore attaccato alla cassa d’amplificazione degli impianti Davoli, ammiravo fantasticante le lucine dei registri degli organi Farfisa. Subivo l’incantesimo dei tasti bianchi e neri, della plastica, dei colori simili a quelli delle automobili di famiglia, Simca, Fiat 128... Allora le macchine avevano colori entusiasmanti, come gli organi. Mi piacevano anche i cavi, gli amplificatori. Desideravo così tanto una tastiera che me la disegnai con un pennarello arancione sopra una tavola di legno. Su ogni tasto scrissi la sigla di un suono... plong bling bum. In bicicletta cantavo a squarciagola in una lingua inventata, che doveva scimmiottare l’inglese. Mi piacevano le cassette che ascoltava mio padre nel nostro registratore arancione “National Panasonic”: Carosone, Celentano, “Vinicio fisarmonica e ritmi”.
Quando hai iniziato a suonare,e cosa?
Avrei desiderato iniziare a suonare la fisarmonica. Oltre al fascino dei tasti c’era quello del mantice, e poi tutte le cromature, gli angoli in metallo... la madreperla dei bottoni... mi sembrava troppo chiederne una, così me ne restai zitto ad ammirarla nelle mani di Giacomo un ragazzino di molto talento che abitava di fronte a noi. Un pomeriggio a casa di una zia che aveva una tastiera Bontempi, mentre mia madre e mia zia chiacchieravano, mi misi a cercare di imparare qualcosa dal metodo Bontempi squadernato sull’organo. Il pezzo era “Il carnevale di Venezia”. La tastiera aveva i tasti numerati e in qualche modo dopo un po’ usci qualcosa di melodicamente comprensibile. Dunque a mia madre sembrò che avessi disposizione. Più tardi si decisero a comprarmi un organo elettronico. A quell’epoca avevo una vera repulsione per il pianoforte che trovavo triste come i vecchi palazzi ottocenteschi del centro storico di Reggio Emilia, e come gli sceneggiati con Alberto Lupo. Dunque comprammo questo organo e iniziai a prendere lezioni da un giovane diplomato che stava in una frazione vicina e che suonava il liscio. Ricordo con molta emozione la prima lezione, nella cucina con la stufa a legna di questa casa vecchia, la meraviglia e il desiderio di apprendere. Con un metodo empirico mi iniziò al metodo “Hanon, il pianista virtuoso”, e a un meraviglioso libro con pezzi ballabili molto semplici. Piccoli valzer, temi popolari e quelle furono le prime cose che imparai a suonare. Poi andai al conservatorio, ma li non c’era verso di suonare. Bisognava fare prima tre anni di teoria e solfeggio e al secondo anno, per il senso di colpa dei compiti estivi non fatti, non mi ripresentai più.
Sei uno di quelli che ha un rapporto d’amore con i suoi strumenti musicali? O sono solo “strumenti”, appunto?
Il mio innamoramento è stato materico. Era originato più dall’oggetto che dalle sue possibilità musicali. Provavo per gli strumenti a tasti l’attrazione che altri coetanei riservavano alle scarpette da calcio, alle biciclette, o ai pattini a rotelle. Organi e armonium esercitavano su di me un fascino paragonabile solo a quello delle illuminazioni natalizie. Forse facevano parte dello stesso mondo di fiaba. Da grande sono diventato più animista. Ho iniziato ad associare dei caratteri umani agli strumenti. Anche a partire dal loro aspetto e il campo della fascinazione ha travalicato gli strumenti a tasto. Si sono fatti scoprire mano mano gli ottoni, gli archi, gli strumenti a corda, quelli a percussione e poi tutti i prototipi. Uno strumento musicale è prima di tutto un’ invenzione, dunque una trovata d’ingegno. L’ingegno mi ha sempre interessato più del genio. Il genio ha a che fare col divino, l’ingegno è più umano. Gli inventori si ingegnano e la loro opera desta meraviglia. Il theremin, per esempio. Le onde Martinot, tutti gli strumenti meccanici, gli automi, sono invenzione prodigiose e nel loro timbro c’è una magia. Il timbro è il colore della musica, ed è una delle poche cose in cui si può cercare di essere personali. In musica, nella canzone si è già detto tutto, ma il timbro è una possibilità aperta. La sua ricerca ha a che fare con cose molto umane, la fortuna, la casualità dell’incontro, la curiosità e la socialità. È come trovare il fuoco di un bivacco, dopo avere attraversato la foresta del Klondike, solitario e infebbrato come un cercatore d’oro.
Quando hai scoperto la tua “vocazione”? Si è manifestata casualmente o hai deciso che doveva arrivare la “chiamata”?
Quando penso alla vocazione penso sempre ai sacerdoti... Ero attirato dalla musica , non dalle canzoni. I cantautori non mi interessavano, facevano parte di quel mondo serioso che comprendeva vecchi palazzi e pianoforti, non facevano parte del “Dio di mio padre”. Da ragazzi abbiamo messo in piedi un gruppo rock, l’abbiamo chiamato Hurricane. Cercavamo di fare innocentemente la musica disgustosa del nostro tempo, i vanagloriosi anni ’80. Più tardi conobbi una ragazza e me ne innamorai. Insieme provammo ad abitare delle canzoni da sognatori, e chiamammo il nostro duo “Blue Valentine”, in onore del principe dei sognatori della strada, l’orco di Pomona. L’accompagnavo suonando canzoni di Tenco, Weill, Waits, Edith Piaf... Poi ogni cosa si ruppe e rimasi da solo sul ciglio della strada, proprio come nelle canzoni che amavo e che tentavo di scrivere. A quel punto intuii quello che sarebbe stato il mio destino: l’artista pre-biografico, quello che prima scrive le cose e poi gli succedono veramente. Decisi di mettermi a disposizione di questa vocazione, con i mezzi di bordo che avevo. Un vecchio piano Fender pesantissimo da trasportare, un automezzo revisionato, molta solitudine e ancora qualche anno di gioventù davanti. Cercai ingaggi in ristoranti, birrerie, piano-bar, circoli, e iniziai a praticare. In un piano bar a Verona, dopo la prima settimana di ingaggio la proprietaria mi disse: “Può evitare di cantare? È sufficiente che suoni...”. Al mio primo concertino al circolo “Vienna” di Modena, un punk di cui distinsi soltanto gli anfibi se ne uscì al terzo pezzo e disse sputando a terra a me e al contrabbassista che tentava di accompagnarmi: “Siete la morte”. Questi e molti altri episodi del tempo del debutto fanno suonare appropriato il termine “vocazione”, qualcosa che ha a che fare con la viva testimonianza del martirio... E anche il termine “chiamata” è giusto. Rispondi alla chiamata e ti arruoli da volontario.
Ti definiresti un eccentrico?
E, se sì, credi che ci si nasca o ci si diventi?
Non sono un eccentrico, sono soltanto un tipo nervoso.
intervista davvero interessante. ne viene fuori un mondo che riconosco come i cugini attesi i matrimoni e il dormire testa e piedi.. compresa la musica degli anni 80 cui si riferisce!
assante riesce nell'impresa di farlo parlare e mi regala il ritratto di un uomo brillante.
lepidezza- Utente... preoccupante >10.000 Post
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Re: Interviste agli artisti
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Che rapporto hai con la poesia e la letteratura? Pensi si possa vivere senza?
Si può senz'altro vivere senza. Conosco persone meravigliose che non hanno mai letto un libro e sanno raccontare cose come un libro aperto. La gente, l”uomo, è già poesia e letteratura. Quello che finisce nelle pagine è una straordinaria sublimazione dell'uomo. La poesia, la letteratura, l'arte sono inutili, non sono necessarie alle sopravvivenza, per questo sono la dimostrazione della parte divina che c'è nell'uomo. La parte che non esaurisce la sua esperienza su questa terra, soltanto nella lotta per la sopravvivenza. Tutto quello che si cerca di affidare al segno, dai graffiti sulla roccia in poi, è la manifestazione di quel tentativo innato nell'uomo, di andare oltre al tempo. Passare dal tempo orizzontale degli accadimenti, a quello verticale del mito. Tramandare, affidare a una dimensione più eterna e condivisibile la propria esperienza del mondo.
La prima canzone quando l'hai scritta. E soprattutto a chi l'hai fatta ascoltare?
La prima canzone che ho scritto si chiama “Stanco e perduto”. Avevo trovato una melodia al piano che somigliava a una canzone già esistente su cui avevo lasciato il cuore. Su quel giro di accordi provai a cantare la prima strofa di un pezzo di Dylan che si chiama “I Was young when i left home”...La biascicavo così in simil-inglese...ma rimaneva una specie di esercizio...Qualche tempo dopo mi trovai davvero sulla strada, senza niente in mano e obbligato a tornare nel piccolo paese da cui ero partito. Mi trovai a sentire la frattura, la separazione da quello che ero appena stato e insieme alle lacrime vennero facili anche le parole. Parole che prima, nella mia lingua corrente sembravano impossibili da dire e cantare, in una maniera che avesse a che fare con l'epica, quella misteriosa dimensione dove ci si ricongiunge a quello che va a finire “dall'altra parte della vita”. Quel segreto che mi aveva commosso negli autori che amavo, come il Tondelli di “altri libertini”, un libro che per la prima volta rivelava la possibilità di parlare di cose che che conoscevo anch'io, con un tono “mitico”. Quella e altre canzoni le ascoltò per primo il mio amico Marleo, che chiamavo Nutles, come del resto lui chiamava me, in onore a un film che amavamo entrambi. Veniva nel mio “ambulatorio” sulla statale, portava due confezioni di birra Forst da 12 l’una, e si passava la notte. Io cantavo e suonavo, lui beveva la Forst e diceva “Vai avanti col pianoforte a lame. E' una cosa che aiuta”. Poi questa canzone la ascoltò il grande Renzo Fantini, e fu soprattutto per questa canzone che volle incontrarmi e produrre il primo disco. Aveva un grande cuore Renzo Fantini e questo era il genere di canzoni che lo emozionava, credo.
Come hai conosciuto Guccini? e che ruolo ha avuto nella tua storia?
Ho conosciuto il grande Francesco Guccini al banco del bar del teatro Ariston durante il festival Tenco del 1989. Ero con la mia fidanzata, che lavorava come barista nel mitologico "Pjazza", il club di Bellaria Igea marina, dove nell'estate del 89, cantai per la prima volta le mie canzoni tutte le sere, a fine serata, per i nottambuli che in vena di romanticherie che aspettavano la fine del turno delle ragazze che lavoravano al bar. Un pomeriggio di Agosto, con un radioregistratore Aiwa del proprietario e musicista Roberto Mantovani, registrai quelle canzoni, mentre l'avvenente Natasha faceva le pulizie con l'aspirapolvere. La mia fidanzata, dicevo, era una grande ammiratrice del lavoro di Francesco Guccini. Quella sera al bar dell'Ariston si iniziò un discorso e a un certo punto mi feci coraggio e dichiarai che avevo scritto anch’io qualche canzone, ma ero giovane e inesperto e se gentilmente, insomma, mi si potesse dare qualche consiglio. Guccini disse “d'accordo, venite a trovarmi a Bologna”. davvero gentile, grazie infinite ma... l'indirizzo?”. Mi guardarono entrambi sorpresi e poi dissero all'unisono... “Ma come ?..via Paolo Fabbri 43!”. Francesco Guccini fu così gentile e così straordinariamente disponibile da chinarsi dalla sua grande altezza e ascoltare questa minuscola cassetta e, nonostante il rumore dell'aspirapolvere, percepirne il contenuto. La passò al suo produttore, manager e fraterno amico Renzo Fantini, che si decise a farne un disco. Sembra una storia d'altri tempi, per il fattore umano che c'è dietro. Renzo Fantini non aveva mai prodotto un disco di un giovane sconosciuto, né Guccini aveva alcuna tradizione di talent scout. Ho un debito di gratitudine eterna per entrambi. Due persone straordinarie, di grandissima umanità.
Che rapporto hai con la poesia e la letteratura? Pensi si possa vivere senza?
Si può senz'altro vivere senza. Conosco persone meravigliose che non hanno mai letto un libro e sanno raccontare cose come un libro aperto. La gente, l”uomo, è già poesia e letteratura. Quello che finisce nelle pagine è una straordinaria sublimazione dell'uomo. La poesia, la letteratura, l'arte sono inutili, non sono necessarie alle sopravvivenza, per questo sono la dimostrazione della parte divina che c'è nell'uomo. La parte che non esaurisce la sua esperienza su questa terra, soltanto nella lotta per la sopravvivenza. Tutto quello che si cerca di affidare al segno, dai graffiti sulla roccia in poi, è la manifestazione di quel tentativo innato nell'uomo, di andare oltre al tempo. Passare dal tempo orizzontale degli accadimenti, a quello verticale del mito. Tramandare, affidare a una dimensione più eterna e condivisibile la propria esperienza del mondo.
La prima canzone quando l'hai scritta. E soprattutto a chi l'hai fatta ascoltare?
La prima canzone che ho scritto si chiama “Stanco e perduto”. Avevo trovato una melodia al piano che somigliava a una canzone già esistente su cui avevo lasciato il cuore. Su quel giro di accordi provai a cantare la prima strofa di un pezzo di Dylan che si chiama “I Was young when i left home”...La biascicavo così in simil-inglese...ma rimaneva una specie di esercizio...Qualche tempo dopo mi trovai davvero sulla strada, senza niente in mano e obbligato a tornare nel piccolo paese da cui ero partito. Mi trovai a sentire la frattura, la separazione da quello che ero appena stato e insieme alle lacrime vennero facili anche le parole. Parole che prima, nella mia lingua corrente sembravano impossibili da dire e cantare, in una maniera che avesse a che fare con l'epica, quella misteriosa dimensione dove ci si ricongiunge a quello che va a finire “dall'altra parte della vita”. Quel segreto che mi aveva commosso negli autori che amavo, come il Tondelli di “altri libertini”, un libro che per la prima volta rivelava la possibilità di parlare di cose che che conoscevo anch'io, con un tono “mitico”. Quella e altre canzoni le ascoltò per primo il mio amico Marleo, che chiamavo Nutles, come del resto lui chiamava me, in onore a un film che amavamo entrambi. Veniva nel mio “ambulatorio” sulla statale, portava due confezioni di birra Forst da 12 l’una, e si passava la notte. Io cantavo e suonavo, lui beveva la Forst e diceva “Vai avanti col pianoforte a lame. E' una cosa che aiuta”. Poi questa canzone la ascoltò il grande Renzo Fantini, e fu soprattutto per questa canzone che volle incontrarmi e produrre il primo disco. Aveva un grande cuore Renzo Fantini e questo era il genere di canzoni che lo emozionava, credo.
Come hai conosciuto Guccini? e che ruolo ha avuto nella tua storia?
Ho conosciuto il grande Francesco Guccini al banco del bar del teatro Ariston durante il festival Tenco del 1989. Ero con la mia fidanzata, che lavorava come barista nel mitologico "Pjazza", il club di Bellaria Igea marina, dove nell'estate del 89, cantai per la prima volta le mie canzoni tutte le sere, a fine serata, per i nottambuli che in vena di romanticherie che aspettavano la fine del turno delle ragazze che lavoravano al bar. Un pomeriggio di Agosto, con un radioregistratore Aiwa del proprietario e musicista Roberto Mantovani, registrai quelle canzoni, mentre l'avvenente Natasha faceva le pulizie con l'aspirapolvere. La mia fidanzata, dicevo, era una grande ammiratrice del lavoro di Francesco Guccini. Quella sera al bar dell'Ariston si iniziò un discorso e a un certo punto mi feci coraggio e dichiarai che avevo scritto anch’io qualche canzone, ma ero giovane e inesperto e se gentilmente, insomma, mi si potesse dare qualche consiglio. Guccini disse “d'accordo, venite a trovarmi a Bologna”. davvero gentile, grazie infinite ma... l'indirizzo?”. Mi guardarono entrambi sorpresi e poi dissero all'unisono... “Ma come ?..via Paolo Fabbri 43!”. Francesco Guccini fu così gentile e così straordinariamente disponibile da chinarsi dalla sua grande altezza e ascoltare questa minuscola cassetta e, nonostante il rumore dell'aspirapolvere, percepirne il contenuto. La passò al suo produttore, manager e fraterno amico Renzo Fantini, che si decise a farne un disco. Sembra una storia d'altri tempi, per il fattore umano che c'è dietro. Renzo Fantini non aveva mai prodotto un disco di un giovane sconosciuto, né Guccini aveva alcuna tradizione di talent scout. Ho un debito di gratitudine eterna per entrambi. Due persone straordinarie, di grandissima umanità.
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