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Da CantaStori a Cantautori

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Messaggio Da Cantastorie Gio 10 Dic 2009, 20:27








---------------------------
Comincio col dissociare questo topic dal mio nick timidone, il nick non c'entra gniente, è solo un casu Da CantaStori a Cantautori 21702

Trattasi del tentativo rapido di percorrere insieme un percorso artistico "non ufficiale" che lega alcuni tratti presenti sin dal medioevo - Giullari, Menestrelli, Trovatori e Cantastorie - fino agli artisti di strada del 900 e che in parte approda nella canzone d'autore entro la musica leggera tra la metà degli anni 50 e la fine degli anni 70.

Orientativamente, i paragrafi potrebbero essere :

Da Cantastori a Cantautori

Origini degli artisti di strada - dai giullari ai cantastorie..
Cantastorie siciliani del 900
L'esperienza degli artisti di strada delle sagre di "maggio" nell'app. tosco-emiliano

Anni 50
Canzoni in dialetto nel 2' dopoguerra: Murolo - Carosone - 1mo Modugno
Il caso "Vecchio frac"
Nuovi temi e nuovi ritmi nelle canzoni di Carosone e Buscaglione

Anni 60

Gaber-Jannacci
......
......
......

Anni 70
......
......
......

Tirare i fili delle matasse..

i puntini...li vedremo in seguito

Ho in mente di soffermarmi su alcune canzoni-snodo....anche se ne ho in mente al momento solo un paio..ma ho un neurone solo abbiate pacenzia 😠
:timido:

ultima preavvertenza - in questo topic, mi riservo di riordinare (modificandone la sequenza o inserendo il tag SPOILER-Nascondi) i messaggi (miei e vostri), in modo che la lettura risulti scorrevole sia per chi scrive che per chi legge timidone


Ultima modifica di Cantastorie il Dom 09 Ott 2011, 19:59 - modificato 5 volte.
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Messaggio Da Cantastorie Gio 10 Dic 2009, 20:30

01

FRAMMENTI DI UNA STORIA

Tratto da qui


Discendente diretto dei menestrelli medioevali e dei musici ambulanti, che cantando portavano ovunque gli echi d'antiche gesta e incredibili prodigi, il Cantastorie è stato nel tempo una delle figure più vivaci della tradizione popolare.

Quest' artista ambulante arrivava anche nei paesi più sperduti eseguendo un repertorio di cantiche tramandate dalla tradizione, oppure inventate e composte da lui stesso, sui temi e gli argomenti del momento.

Animava le feste popolari, s'insinuava nei balli, nelle cerimonie nuziali, nei battesimi e nelle cerimonie religiose. Nei secoli, il mestiere e l'arte dei Cantastorie, sono stati molto importanti per la diffusione d'una cultura omogenea, attraverso gli strati sociali dei diversi stati e delle diverse popolazioni della penisola italica.

Tutto sommato, l'unita d'Italia è storia recente.

Per secoli la nostra penisola è stata un caleidoscopio di piccoli stati con proprie leggi, monete e spesso con proprie culture.
La comprensione di questo fatto, permette di dare al Cantastorie un particolare rilievo, inserendolo nei vari eventi culturali che nel passare dei secoli. permisero la diffusione e lo sviluppo di una informazione culturale unitaria e quindi nazionale.


Evidentemente l'influsso del Cantastorie, non ebbe carattere politico ma semmai poetico; lui era il modesto e inconscio portatore d'una informazione culturale alla quale tutti, analfabeti inclusi, potevano accedere.

Era il propagatore e il campione della cultura orale, era una delle poche fonti di riferimento che aveva il popolo analfabeta per sapere ciò che accadeva altrove, e per altrove intendo ciò che accadeva fuori dalle mura della città, oltre l'orizzonte, in altri luoghi e altri mondi.

E il mondo a quei tempi doveva apparire davvero grande, misterioso e pieno di avvenimenti magici.[i] Il pubblico delle piazze che accorreva ad ascoltare le sue storie che spesso riguardavano anche avvenimenti politici, memorizzava facilmente le semplici rime che le componevano.


Grazie alla facile memorizzazione le storie potevano poi essere ripetute ad altra gente.

In questo modo le storie dei Cantastorie viaggiavano di bocca in bocca, si espandevano e penetravano fin dentro le case.
L'arte poetica dei Cantastorie, ha attraversato in modo orizzontale l'intera società.

Egli si esibiva ovunque potesse appoggiare la sua piccola panca (da qui anche il nome di Cantimpanca o Cantimbanco), e salito sopra questo minuscolo palcoscenico, spesso grande poco più dei suoi piedi, egli lanciava al pubblico, nobile, borghese, proletario che fosse, il suo canto e le sue storie.


BREVE GENEALOGIA


Passiamo ora all'albero genealogico dei Cantastorie, le cui radici credo antiche quanto la storia dell'uomo, così come credo che il desiderio di raccontare storie sia nato con l'uomo.

Innanzitutto dobbiamo tenere presente un dato importante: il Cantastorie è un artista di piazza. Questo significa che le sue origini, si mischiano con quelle di tutti gli altri artisti, che nel tempo hanno agito o si sono evoluti, partendo da quel particolare spazio sociale che è la piazza.


I dati storici comunemente accettati, fanno idealmente partire la storia degli artisti di piazza dall'epoca romana.

Dato questo presupposto, si può dire che il Cantastorie è un discendente naturale degli antichi Histriones, parola con la quale si denominavano gli attori romani.

Il termine Histriones sembrerebbe di origine latina; dico sembrerebbe perché Tito Livio (59 a.C.) nel volume VII delle Storie, sostiene che Histrio era parola di origine etrusca, indicante gli attori etruschi che nel 364 a.C. andavano a Roma per prendere parte ai ludi scenici e che, in gruppi o singoli, si esibivano in vari luoghi.

Solo in seguito diventò termine generale indicante anche gli attori romani.
Attraverso i tempi numerose sono le ramificazioni che si sviluppano da questo primo tronco, e che quindi interessano l'evoluzione dei Cantastorie.
Egli è anche l'erede della stirpe dei Giullari, un genere di musici - attori - buffoni, che allietarono piazze e castelli tra il 1200 e il 1300.

Questi cantavano, ballavano, suonavano, recitavano monologhi drammatizzati utilizzando travestimenti e maschere.

Alcuni giullari di aspetto deforme, come i gobbi e i nani, trovarono collocazione fissa nei palazzi dei nobili, diventando buffoni di corte.

Altri mantennero una propria indipendenza, agendo nelle piazze in occasione delle fiere e delle numerose feste, dove cantavano antiche leggende, storie amorose, scherzose e lascive.
Molto amati dal popolo, ebbero un periodo di grande trionfo, tanto da essere chiamati a recitare i loro monologhi anche dentro le chiese.
Ma furono poi bollati d'infamia da numerosi predicatori e paragonati al diavolo, a causa dei grotteschi travestimenti e delle maschere caricaturali.
Scomparsi i Giullari, nelle piazze trova spazio una generica folla di giocolieri, funamboli, ammaestratori, ciarlatani da fiera, suonatori e cantatori di cui le antiche cronache già attestano l'esistenza nei vari territori della penisola italica fin dal 540.

Altra ramificazione è quella dei Menestrelli che erano praticamente uomini di corte, veri e propri cortigiani che nella maggior parte dei casi operarono all’interno dei palazzi.
Questi era a diretto servizio del nobile che l'ospitava e del quale, nelle canzoni, esaltava le gesta e cantava la magnificenza; si occupava inoltre di allietare con musiche, danze figurate e canzoni d'amore, le feste di dame e cavalieri.

Un altro ramo molto rigoglioso e importante è quello dei Trovadori provenzali, che fuggiti dalla Francia per le numerose persecuzioni religiose in atto nella Provenza del 1200, trovarono nei piccoli stati italici - in particolare Bologna, Firenze e in Sicilia - nuova fortuna e impulso, tanto che la loro arte fiorì e si diffuse lungo tutta la penisola fin verso il 1400.

L’ arte e la cultura dei Trovatori influirono anche nello sviluppo di importanti generi poetici come lo Stilnovo.
Quest’ influsso lo si avverte nell'opera di grandi poeti del 1300, come Dante e Petrarca, nel Boccaccio delle rime, e nel 1400 nelle opere del Poliziano e Lorenzo il Magnifico.
I Trovatori, fecero conoscere in Italia anche il genere delle cantafavole di origine orientale e il canto epico/ narrativo, attraverso i quali in seguito si svilupparono in Italia diversi cicli di racconti:
il Ciclo Religioso, con storie elaborate dalla Bibbia,
il Ciclo Classico, con storie di origine greco - latina e con personaggi di derivazione omerica,
il Ciclo Bretone dedicato a Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda
il Ciclo Carolingio dedicato a Carlo Magno e alle Crociate,
da cui poi scaturì la Storia dei Paladini di Francia, le cui avventure ancora oggi sono narrate nei teatri di Pupi Siciliani.

Ma è nel tardo 1500 che tra i tanti artisti di piazza, si comincia a distinguere con precisione la figura dei Cantastorie.
Il suo tratto iconografico assume personalità e individualità tanto da diventare un artista a se stante ed è così che arriva fino al primo novecento, per diventare anche un nostro contemporaneo.
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Messaggio Da Cantastorie Gio 10 Dic 2009, 20:56

La tradizione dei Trovatori (nell'app. tosco-emiliano e in Sicilia) ha messo radici che si sono mantenute per secoli.....dando origine ad es alle tradizioni delle sagre di Maggio nell'area tosco-emiliana....feste di paese legate ai cicli della fertilità agricola....ed

In Sicilia, oltre ai Cantastorie, la diffusione dei Trovatori ha dato origine alla tradizione del teatro dei burattini e soprattutto il Teatro dei Pupi, con il ciclo carolingio (orlando, rinaldo, angelica, medoro, l'ippogrifo e il dragone). I pupari tramandavano la propria attività da padre in figlio e si occupavano di tutti gli aspetti dello spettacolo, come dei veri impresari-artigiani-capocomici...facendo da sè i Pupi, i fondali e le scene da teatrino e i contenuti delle scenette in genere mutavano di volta in volta o di paese in paese...come ad es. fanno i comicisatirici moderni quando nei loro onemanshow aggiungono o levano materiale a seconda dell'attualità o del luogo in cui s'esibiscono.

sulle Origini dell'Opera dei pupi ...
http://www.figlidartecuticchio.com/cuticchio_Origini.html
.........................

Sulla tradizione di Maggio nel tosco - emiliano..ho trovato ..
questo link..

Il teatro popolare dell'Appennino tosco-emiliano


Le manifestazioni di benvenuto alla primavera, i riti di fertilità, occupano notevole spazio e importanza nella storia della cultura del mondo popolare. Anche se ridotti ormai a piccole isole arcaiche in seno alla cultura popolare dei nostri tempi, hanno ancora un significato che riescono a esprimere nonostante il contesto della vita attuale che tende ad annullare sempre più qualsiasi valore umano.

Alcune di queste superstiti manifestazioni rituali di benvenuto alla primavera si svolgono nel mese di maggio ora con una celebrazione del rifiorire dell'albero con il quale si identifica il ritorno della buona stagione, ora con una questua e un corteo processionale (come i Maggi lirici dell'Emilia-Romagna e della Toscana), oppure con una rappresentazione teatrale all'aperto, come, ad esempio, i Maggi drammatici dell'Appennino tosco-emiliano, anche se hanno progressivamente perduto nel corso degli anni gli elementi rituali per acquisire sempre maggiori caratteristiche di spettacolo e raggiungono ora il culmine con le rappresentazioni estive. Oggi, infatti, il mese di agosto, con la festa di Ferragosto, costituisce il vertice dell'interesse per questa forma di spettacolo: ancora una volta, come un tempo era lieta consuetudine di ogni festa o domenica, le famiglie montanare si ritrovano al completo: le fabbriche, i cantieri del nord sono chiusi e le ferie riconducono al paese gli emigrati.

Particolari canzoni dedicate al mese di maggio e alla primavera si trovano nelle tradizioni popolari di qualsiasi paese, così come sono facilmente rintracciabili in diverse parti d'Italia: dalla Sardegna alla Sicilia, alla Calabria e, quindi, seguendo un itinerario segnato dalla dorsale appenninica, fino al Piemonte, nelle zone del Monferrato e del Canavese. La Toscana, nell'epoca del Magnifico (« Ben venga maggio e il gonfalon selvaggio», in particolare, fu la terra dove il "maio" pose le sue radici più profonde.

La canzone di maggio che si identifica nel Maggio lirico (in contrapposizione al Maggio drammatico o epico), cosi come è giunta fino ai giorni nostri, si presenta in due versioni (a seconda del giorno e delle finalità per cui si canta) che danno origine al Maggio sacro e a quello profano.

Il Maggio sacro, detto anche delle "Anime", si canta la prima domenica di maggio. Alcuni cantanti accompagnati da suonatori di fisarmonica, chitarra e violino vanno per le strade del paese cantando e questuando: infatti lo scopo di cantare il Maggio delle "Anime" è quello di raccogliere offerte per una messa in suffragio dei defunti.

Il Maggio profano, invece, detto anche delle "Ragazze", che si svolge tra la notte del 30 aprile e il I maggio, ha lo scopo di propiziare la venuta della buona stagione. Anche qui un gruppo di cantori con accompagnamento di fisarmonica, violino e chitarra, percorre le strade del paese cantando una serenata in onore della primavera (« Ecco il ridente maggio, / ecco quel nobil mese, / che sprona ad alte imprese / i nostri cuori»). Alcune strofe particolari vengono cantate sotto le finestre delle ragazze: si tratta dell "Ambasciata". Questi canti rimangono inalterati nel corso degli anni: altri versi invece, pure essi cantati, cambiano ad ogni manifestazione; sono i "rispetti" dedicati alle varie famiglie del paese.

Da queste due forme di canzoni di maggio, che trovano la loro origine nell'arcaica matrice dei riti di fertilità, è derivato il Maggio drammatico o epico, influenzato certamente anche da altre forme drammatiche come le Sacre rappresentazioni.

Il Maggio, una delle più vive realtà della cultura del mondo popolare di oggi, è uno spettacolo che oltre duecento anni fa ha trovato in Toscana la sua sede stabile, dalla quale è poi risalito lungo i crinali dell'Appennino tosco-emiliano toccando il Modenese, il Reggiano, il Parmense. Questa espressione popolare ha subito in seguito modifiche ed evoluzioni durante il processo di diffusione operato dagli emigranti stagionali dell'Emilia che rientravano alle loro case attraverso le antiche vie Vandelli e Giardini (le uniche strade che nell'Ottocento valicassero l'Appennino, dopo i" mesi passati lavorando nelle terre toscane della Garfagnana, della Lucchesia, della Versilia spingendosi a volte anche fino all'Isola d'Elba.

Oggi il Maggio è un vero e proprio spettacolo che consiste in una rappresentazione in versi, con accompagnamento strumentale. L'argomento del copione è affidato a trame fantastiche che si ispirano a volte anche a fatti storici. Gli attori (chiamati maggianti in Toscana, maggerini in Emilia), come anche gli autori, di questa forma di teatro popolare, sono gli abitanti (contadini, operai, artigiani, pastori) dei paesi dell'Appennino tosco-emiliano dove gli stessi Maggi vengono rappresentati. In questi paesi un tempo il Maggio costituiva l'unica forma di spettacolo, l'unico divertimento, che non si esauriva tuttavia nelle sole giornate della recita, ma teneva legato l'intero paese durante tutto l'anno: le trame più complicate, i personaggi più favolosi e fantastici, i passaggi più belli, gli interpreti più bravi erano motivo di conversazione nelle osterie, nelle stalle durante le lunghe veglie invernali. Il Maggio, diffondendosi dalla Toscana in Emilia, ebbe a subire modifiche ed evoluzioni ancora facilmente riscontrabili nelle varie rappresentazioni. In Toscana la parte più bella della rappresentazione è il canto: le interpretazioni dei maggianti sono talvolta perfette dal punto di vista vocale, arricchite dai preziosismi interpretativi propri dal modo di cantare alla toscana (stornelli e ottave rime). Il movimento scenico è ridotto all'essenziale: i duelli, più che combattuti, sono soltanto accennati, con i contendenti che si fronteggiano con corte spade di legno e con uno scudo pure di legno dalle dimensioni piccolissime che copre appena la mano. I costumi sono di grande semplicità: una specie di camice di diversi colori, di stoffa leggera, con un corto mantello, pantaloni neri di foggia civile con ricami laterali. Un elmo con un pennacchio di strisce di carta colorata o di nastri completa il costume del maggiante.

Questo in Garfagnana: nelle province di Lucca e di Pisa (come anche nelle zone del Bruscello) i costumi vengono presi a noleggio dalle sartorie teatrali e cambiano di volta in volta, secondo lo spettacoli.

In Emilia, oggi solamente nelle zone del Reggiano e del Modenese, lo spettacolo of­fre un maggiore dinamismo, pur mantenendo evidenti matrici mutuate dalla Toscana. C'è forse anche un maggiore interesse attorno al Maggio, come lo dimostrano anche i molti autori che continuano a scrivere copioni anche oggi, a differenza della Toscana. In Emilia ogni attore ha il suo costume che usa in ogni rappresentazione e lo accompagnerà nel corso di tutta la sua carriera di attore del Maggio. I costumi sono di proprietà degli attori o delle compagnie che qui, nella quasi totalità, sebbene a diversi stadi organizzativi, raggruppano i maggerini dei paesi dove ancora oggi continua la tradizione del Maggio. I costumi vengono approntati da sarte di paese sulla scorta delle indicazioni certamente avute da chi un tempo aveva visto questi spettacoli in Toscana, e sono andati via via trasformandosi e arricchendosi (pur nella estrema semplicità che vediamo oggi) di fregi e disegni dettati dalla fantasia. Sono di velluto nero: una giubba con una corta mantellina, pantaloni alla cavallerizza, lunghi gambali. Sul nero del velluto spiccano stemmi e disegni dai colori vivaci. Un elmo con pennacchio, una spada di ferro e uno scudo completano il costume del maggerino emiliano. I duelli vengono combattuti con un urto degli scudi ad ogni assalto. La recitazione si avvale del gesto che è una componente essenziale dell'azione scenica. I copioni sono in quartine di versi ottonari alle quali nei momenti più patetici si alternano sonetti e ottave, con l'accompagnamento musicale di violino, fisarmonica e chitarra su motivi di valzer, polka, mazurca. Gli stessi strumenti (a volte anche un clarinetto) sì trovano in Toscana, dove la metrica dei copioni presenta quartine, quintine e ottave.

Quasi ovunque la lunghezza dei copioni va orientandosi sulla durata di due ore e mezza, tre ore o tre ore e mezza. Un tempo duravano diverse ore fino a coprire l'intero pomeriggio, a giustificazione del fatto che il Maggio era l'unico divertimento allora esistente. E' stata un'esigenza imposta dal mutato ritmo di vita dei giorni nostri, che tuttavia non ha recato gravi danni all'economia dello spettacolo, rendendolo più accettabile e contribuendo in tal modo, in maniera determinante, alla sua sopravvivenza.

Un tempo, nel secolo scorso, verso il 1850 i testi venivano pubblicati a stampa: esistono decine e decine di testi stampati dalla tipografia Sborgi di Volterra nel 1867. In seguito i testi venivano ricopiati a mano e quindi distribuiti di paese in paese. Questa tradizione dei copioni manoscritti è continuata fino a qualche tempo fa, sostituita poi dalle copie in ciclostile e, di recente, dalla pubblicazione da parte della "Società del Maggio Costabonese" dei copioni in numeri speciali della rivista "II Cantastorie" di Reggio Emilia.

I luoghi delle rappresentazioni sono generalmente all'aperto, in radure naturali che accolgono gli spettacoli da maggio a agosto. A Buti le recite avvengono invece in teatro, mentre a Montepulciano sulla piazza del Duomo.

II Bruscello è un'altra forma della drammatica popolare propria della provincia di Siena, che ha toccato anche le provincia di Grosseto, Lucca e Pistola, che presenta caratteri affini ai Maggi. Tre sono le matrici originali del Bruscello, che hanno dato vita nel passato ad altrettanti temi nei quasi si identificava questa manifestazione: l'argomento nuziale (l'amore contrastato che alla fine trionfa: era la forma più usata), l'argomento epico-cavalleresco (proprio dei Maggi), la rievocazione di una scena di caccia (che si faceva anticamente con una lanterna e con un ramoscello, da cui probabilmente derivò lo stesso nome di Bruscello).


..........................

Non sono riuscita a trovare un sitoweb unico che riporti la tradizione degli Improvvisatori in endecasillabi toscani ....ma ci tornerò su...perchè anche loro partecipavano a quelle sagre di maggio e volevo capire esattamente l'origine di questa tradizione..che non so se sia antecedente o successiva alla fortuna di Dante con la su' Commedia..ma ci tornerò quadno avrò dati piu' precisi....
naturalmente se voi li avete....mica dovete aspettare a mmmuà per far luce OCCHEI!

questo vuol essere un "lavoro a 150 mani" amici


Ultima modifica di Cantastorie il Gio 10 Dic 2009, 23:14 - modificato 2 volte.
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Messaggio Da mambu Gio 10 Dic 2009, 21:08

Solo un accenno veloce: la tradizione degli improvvisatori è più legata all'epica cavalleresca e infatti sia le improvvisazioni singole che le tenzoni sono in ottava rima (la stanza di 8 versi di Boiardo, Ariosto... ).

Ci sono numerose testimonianze secentesche e settecentesche di canto popolare dei poemi epici. Ce n'è pure una di Goethe che riporta anche la partitura di Tasso cantato da un gondoliere veneziano, ma devo cercare le fonti. Però era un fenomeno notissimo, quasi un luogo comune diffuso in tutta Europa a proposito dell'Italia, tanto che ne parla con incanto pure Puskin nell'Onegin, e non era mai stato in Italia
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Messaggio Da Cantastorie Gio 10 Dic 2009, 21:11

Ecco una breve spiegazione sugli improvvisatori cantori a ottave toscani
http://www.arsia.toscana.it/antichimestieri/ita/AR1.asp?attivita=AR1


03 - Improvvisatori Cantori a Ottave


Tradizione della poesia estemporanea
Nella Toscana rurale di un tempo non era difficile imbattersi in qualcuno che avesse il dono naturale di "cantare a braccio", o "cantare di poesia" per usare un'espressione più comune in Toscana, che fosse cioè capace di improvvisare canti su argomenti suggeriti solo qualche minuto prima, producendo nei casi più felici vere e proprie poesie cantate. Fino agli anni Sessanta si usava distinguere fra il "Cantar di scrittura" e il"Cantar di bernesco", ossia fra il cimentarsi nel canto su storie scritte da altri autori e la vera e propria improvvisazione dei temi. Gli improvvisatori erano infatti definiti anche "bernescanti", da Francesco Berni di Lamporecchio, divenuto famoso nel XVI secolo per possedere questa qualità e per l'acutezza delle sue esternazioni.


Nella poesia estemporanea, mentre l'argomento cambia di volta in volta, a seconda anche della circostanza in cui avviene l'improvvisazione, il metro e la melodia sono sempre gli stessi e ricalcano gli schemi tradizionali tramandati da una generazione all'altra. Si tratta di ottave di endecasillabi, nella prima parte in rima alternata (ABABAB) e con i due versi di chiusura in rima baciata (CC). Il mondo rurale viene spesso definito e interpretato in termini di confronto, così anche queste improvvisazioni assumevano spesso la forma di "contrasti", come nel caso del Contadino e Corbellaio, intendendo con quest'ultimo colui che produceva cesti in castagno, o del Padrone e Contadino. Nel contrasto in ottava rima, due improvvisatori assumono un ruolo ciascuno e, opponendosi l'un l'altro in una serie di botta e risposta, espongono il loro modo di vedere sull'argomento trattato, come si può vedere negli esempi qui riportati.

Esempi

Contrasto fra un Corbellaio e un Contadino

.. Corbellaio: Contadino convien che ti consigli che quando hai lavorato una giornata, mezza viene il padron che te la pigli e la fatica tua non è pagata, e con poca polenta ai propri figli a stento fai passare l'invernata, ma noi con sole ott'ore è fatta tutta e si mangia braciole e pasta asciutta.
Contadino: Ma la fatica tua poco ti frutta, perché state all'oscuro a lavorare, in una tana tenebrosa e brutta che l'aria pura non si può gustare, l'avete il viso dalla pelle asciutta dal troppo lavorar senza mangiare e col timor la sera e la mattina che sospenda il commercio Terracina. ...

Contrasto fra un Padrone e un Contadino

Padrone: Oggi questi imbecilli di coloni son diventati proprio impertinenti ce l'hanno presa a morte coi padroni e minacciar da parte lor ti senti. Più non portano l'uova coi capponi e più non si dimostran riverenti rimpiango sempre quel tempo remoto quando ognun si mostrava a noi devoto.
Contadino: Vengo signor Padrone a farle noto che anch'io sono cristiano in questo mondo per lei lavoro e sono sempre in moto e a tutti i miei doveri corrispondo. A nessuno però non resta noto che mi abbandona misero nel mondo, se lavoro ho diritto anch'io alla vita bisogna regolar questa partita ...



Le occasioni in cui cantar d'ottava erano le più varie, e spesso ciò avveniva, d'inverno, nelle veglie intorno al focolare e, d'estate, la sera sull'aia. I giovani avevano modo così di imparare facilmente e la trasmissione orale avveniva in maniera spontanea. Tra i maggiori esponenti di questa tradizione, nella Toscana dell'Ottocento, ebbero un'adeguata fama Beatrice di Pian degli Ontani e Pietro Frediani da Buti. Con la scomparsa della civiltà contadina, l'eredità di questa tradizione resta oggi patrimonio di pochi, e per lo più di persone anziane. E' solo in anni relativamente recenti che per fortuna si è iniziato a capire quanto sia importante la conservazione delle testimonianze di questa particolare forma di cultura popolare, ma ancora poco è stato fatto in questo senso.
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Messaggio Da mambu Ven 11 Dic 2009, 00:00

Cantastorie ha scritto:Sulla tradizione di Maggio nel tosco - emiliano..ho trovato ..
questo link..

Il teatro popolare dell'Appennino tosco-emiliano

(Presentazione del disco
"Riverita e colta udienza. Teatro popolare dell'Appennino tosco-emiliano", a cura di Giorgio Vezzani
,
Cetra Ipp 362, 33 giri 30 cm., 1978)


Mannaggia Canta, io questo disco ce l'ho... vedo titolo titolo se in rete trovo qualcosa se no devo affidarlo a qualche amico per digitalizzazione e messa in rete, ma si va su tempi lunghi

Sono però ricostruzioni colte o semicolte, che divennero in voga dagli anni '60
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Messaggio Da Cantastorie Ven 11 Dic 2009, 00:16

io non ci metto la mano sul fuoco..ma ho letto anni fa che qualche canzone o Copione di quelle sagre di maggio ha ispirato sia qualcosa di Guccini che di Bertoli...e c'è un'altra cosa rispetto alla Toscana che mi ronzava in testa stasera: Se non ricordo male, De Andrè inizio' a frequentare un gruppetto anarchico di Carrara (a 17-18 anni).. e in quel circolo circolavano anche ballate o filastrocche scritte da locali...
è che io ste cose le ho lette anni fa e vatti a ricordare se era una rivista o un libro..boh :chedici: ..può essere anche che fosse un mensile che arrivava nella radiolocale che frequentavo intorno ai 20 anni..vattelapesca come si chiamava il mensile ...
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Messaggio Da mambu Ven 11 Dic 2009, 00:39

Il Cantastorie, no? Da CantaStori a Cantautori 277752

http://www.ilcantastorie.info/rivista.htm

http://rivistailcantastorie.interfree.it/SOMMARII%201963-2006.pdf

C'era in tutte le Case del popolo e sedi CGIL. Il curatore storico è lo stesso Vezzani curatore del disco di cui sopra.

Quanto a Guccini, ricordo un filmato Rai degli anni '70, forse mandato da Arbore, con lui che partecipava a una gara di improvvisazione in ottave con un veccietto con risposta per le rime (cioè il primo faceva un'ottava e il secondo doveva rispondere usando le stesse rime)
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Messaggio Da Cantastorie Ven 11 Dic 2009, 01:08

grazie per la segnalazione...leggendo l'indice di quella rivista vedo che non siamo mproprio furoi strada :vacanza:

cmq la rivista che mi ricordo era un mensile musicale, in versione economica, visto che aveva i fogli tipo ciclostile con le foto in biancoenero....cmq..proverò a cercare meglio in rete domani perchè su Guccini e Bertoli son quasi sicura di averlo letto - che un paio di canzoni son ispirate o legate cmq a quella tradiz. delle sagre di maggio..mi documenterò timidone
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Messaggio Da mambu Ven 11 Dic 2009, 01:15

Ispirazione generica in moltissimi pezzi di Guccini, il narrare storie, la struttura strofica, l'uso della rima, lessico perlopiù semplice ma con qualche parola/marchio di letterarietà... Un pezzo che sia anche formalmente ispirato a quella tradizione, non direi.
Di Bertoli c'era il disco in dialetto ma non me lo ricordo bene e stasera non riesco a entrare su youtube
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Messaggio Da Cantastorie Ven 11 Dic 2009, 19:05

Tra le forme di teatro tradizionale toscano...
Qui
Maggio
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Bruscello
Qui

Spoiler:
Da CantaStori a Cantautori 2007a
Improvvisatori in Ottava Rima Qui
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Messaggio Da Cantastorie Ven 11 Dic 2009, 19:19

Leggendo quanto sopra, mi son segnata alcuni punti :

- improvvisazione in rima cantata,
- andare itinerante in una area sì regionale, ma ampia.
- attingere a storie sia dalla cronaca spicciola che da vere e proprie opere letterarie,
proponendo sia temi semplici che temi di denuncia/satira antipotere:
...il cattivo-malfattore-prepotente che alla fine le prende e il protag-buoncoraggioso-giusto che alla fine l'ha vinta..
-nel caso di esibizioni teatrali, il cantastorie era una sorta di capo-comico con al seguito altri a cui egli assegnava le varie parti di scena (come il puparo siciliano che di solito usava i suoi familiari come co-attori o co-voci..)

- esibirsi in un luogo pubblico, aperto a tutti; spesso lasciavano i fogli volanti con i testi dei canti o di qualche poesiola-fissa;
- avere come destinatario principale i contadini o cmq la popolazione delle campagne- non i cittadini..
- avere come contropartita oltre che il danaro offerto, una buona cena con bevuta
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Messaggio Da Cantastorie Ven 11 Dic 2009, 19:33

Torno su P.A. Bertoli ...
Qui breve biografia e Discografia

L' lp di cui ieri ricordavo qualcosa è un lp - S'at vien in meint - interamente in dialetto di paese (neanche in modenese..ma proprio paesano sassuolese..) e quel giornalino diceva che un paio di canzoni - vatti a ricordare quali, un'mpresa, erano nate proprio per una Maggiolata..
Qui trovate i testi Qui

ps. Alla Brigata Lolli dovrebbero dare 1234 premi e riconoscimenti perchè è una vera miniera per queste chicche OCCHEI!
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Messaggio Da Cantastorie Ven 11 Dic 2009, 19:46

[centrato]Il mestiere del cantastorie: l’arte del dubbio contro l’ufficialità [/centrato]

Tratto da qui

Da CantaStori a Cantautori Santangelo1

Una piazza, uno sgabello o una macchina come palcoscenico, un cartellone dipinto a mano con grandi riquadri illustrati o un proiettore con diapositive per la scenografia: sono questi gli elementi, ogni volta diversi a seconda delle latitudini, dei tempi e delle opportunità, che fanno da cornice all’azione dei cantastorie. “Nati” intorno agli anni Venti del Novecento, sulla scia dei canzonettisti popolari, i cantastorie hanno accompagnato il corso della storia raccontandone i fatti salienti, le cronache, le biografie di personaggi illustri, i punti di crisi e di svolta. A cominciare da Ignazio Buttitta, grande poeta cantastorie siciliano nato all’alba del secolo scorso, passando per Orazio Strano, Turiddu Bella, Ciccio Busacca, Franco Trincale, fino ad arrivare agli artisti degli ultimi decenni come Fortunato Sindoni, Vito Santangelo, Mauro Geraci, i cantastorie sono a tutti gli effetti “cantori di modernità”, nel senso che la loro rielaborazione di eventi e storie non si lascia mai incorniciare in un quadretto folkloristico, né si presta alla replicabilità di un’interpretazione data una volta per tutte, appartenente al passato.

Sono due le grandi aree italiane che hanno visto l’affermarsi della figura del cantastorie: una la Sicilia, l’altra l’area centrosettentrionale, dalla Toscana al Veneto, con frequenti scambi di testi scritti tra artisti di diversa provenienza che creano così interessanti relazioni tra Nord e Sud del paese.
La presenza significativa in Sicilia si spiega con una grande diffusione nell’isola della canzone narrativa a livello popolare già dalla fine dell’Ottocento. La canzone narrativa, di tradizione orale, non era il prodotto di un singolo cantastorie ma di una “stratificazione” di versioni nel corso del tempo. Inoltre c’era una fortissima influenza del teatro dialettale borghese, che a Napoli e a Roma prendeva il nome di pulcinellata; in Sicilia c’era invece, oltre al teatro dei Pupi, la cosiddetta vastasata, che prende il nome dal vastaso, letteralmente il “facchino”, corrispondente al servitore sciocco della commedia goldoniana, che si diffonde tra Sette e Ottocento grazie all’azione teatrale di artigiani, impiegati che ritraevano i personaggi della vita di tutti i giorni appartenenti al popolino.
Nel repertorio dei cantastorie c’è anche una forte connessione con la canzone sociale: esiste infatti un vasto repertorio di canti dell’emigrazione, delle lotte contadine e sociali. Le tecniche di declamazione sono molto simili a quelle del teatro carnevalesco siciliano; sono frequenti le mascherate in piazza, con veri e propri contrasti tra personaggi opposti. Queste tecniche sono state riprese dai cantastorie e montate in un nuovo progetto conoscitivo che si afferma a partire dal secondo decennio del Novecento.

Ovviamente il repertorio è cambiato molto da allora. All’epoca i cantastorie rappresentavano elementi di modernità nella cosiddetta cultura popolare; le storie cantate erano lunghe anche due ore e narravano soprattutto la biografia di un personaggio. Oggi invece, nonostante un cantastorie come Fortunato Sindoni canti Il contrasto tra il cristiano e il musulmano, Il contrasto tra il potente e il pescatore sulla spinosa questione del ponte sullo Stretto e Dorit & Hassan che esplora le contraddizioni del conflitto israeliano-palestinese – nel denso repertorio dei cantastorie prevalgono le ballate, brevi componimenti poetico-musicali più adatti ai dettami fulminei di oggi, con cui fatti della nostra cronaca vengono narrati e sottoposti a una pubblica riflessione di piazza. Dagli anni Settanta, con il fenomeno delfolk music revival, i cantastorie hanno riacquistato visibilità a livello nazionale. La pratica era quella di girare di piazza in piazza, con la macchina come palcoscenico ambulante: lì il cantastorie cantava arrampicato sul tetto, dopo aver magari preso appunti su quello che accadeva in paese. Artigiano della parola, la rende oggetto smerciabile anche dal punto di vista economico, con la vendita di nastri e cd. L’interesse per questa figura ibrida è recente, perché ancora venti anni fa i cantastorie erano considerati dall’accademia come dei “canzonettisti” della cultura popolare e se ne coglievano solo gli aspetti popolareschi: come dire Rugantino, e non il Pasquino.

L’intervento del cantastorie è invece – secondo Mauro Geraci, cantastorie ed antropologo – un «momento di riazzeramento morale. Il suo compito è quello di sollecitare il dubbio sulla versione ufficiale degli eventi, proporre un altro modo di leggere la storia e di straniare in senso brechtiano lo spettatore». Il cantastorie è insomma un cantore dell’esistente e non il rappresentante di un mondo in declino, da salvaguardare: più che la Baronessa di Carini – avverte ancora Geraci – il cantastorie interpreta piuttosto il mancato funerale di Welby o la guerra in Iraq o la condizione del lavoro in fabbrica. Le case dei cantastorie sono spesso dei laboratori dove si dipingono i cartelloni, si allestiscono le proiezioni di diapositive: il cantastorie rifugge in questo modo il cliché etnicista o del populista, lo stereotipo del testimone di una presunta cultura arcaica e incontaminata. D’altra parte il cantastorie affronta le storie degli altri tendendo a svestirsi della propria stessa identità, sforzandosi di essere voce di tutte le voci: con questo sentimento così poetava il grande Ignazio Buttitta nel celebre libro Io faccio il poeta: «Sugnu un ghiardinu di ciuri e mi sparto a tutti/ una cassa armonica e sòno pi tutti/ un agneddu smammatu e chianciu pi tutti agnelli smammati».
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“La piazza, spazio ideale dei cantastorie”
Tratto da qui

Il tema della tutela dei beni immateriali (feste, rituali, costumi…) è all’ordine del giorno. L’Italia ha ratificato recentemente la convenzione dell’Unesco del 2003 su questo tema e si appresta a stilare una “lista” nazionale dei beni da valorizzare e tutelare. Mauro Geraci è un antropologo, professore associato di Etnologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina, grande studioso dei cantastorie e cantastorie egli stesso. In questa intervista espone la sua teoria sugli aspetti critici della tutela, sul ruolo del ricercatore antropologo, sulla figura del cantastorie.

Le feste, le tradizioni sono considerate come patrimoni da difendere, da tutelare per impedirne la sparizione o l’oblio. È possibile stabilire un criterio una volta per tutte che promuova un fatto culturale piuttosto che un altro?

«È già difficile sostenere che un canto o una festa popolare o una performance siano immateriali: di fatto sono composti da strumenti musicali, divise delle congregazioni che sfilano lungo le strade, fiori per quello che riguarda le infiorate: si tratta di oggetti, di materiali. Anche i concetti d’altra parte potrebbero essere considerati “beni immateriali”: l’onore o la verginità, ad esempio, sono fatti culturali, che ci piaccia o meno; il problema è il punto di vista. E ancora, chi decide che questa festa deve essere valorizzata e non quell’altra? Gli antropologi a volte possono studiare un evento festivo per diversi anni (vedi Malinowski, che ha passato quattordici anni a studiare la forma di scambio kula dei trobriandesi), e la conclusione di solito è che il punto di vista di chi pratica la festa – il cittadino, il prete, il mafioso, l’amministratore locale – è fondamentale. Un conto dunque è “valorizzare” solo l’aspetto estetico, folkloristico; un altro è riflettere davvero sul punto di vista, cioè sulla politica della valorizzazione».

Possono essere stabiliti dei criteri? L’Unesco parla di rappresentatività dell’evento all’interno della comunità. C’è un ruolo dell’antropologo nel definire contorni e sostanza del concetto di tutela?

«Prendiamo la Festa dei Gigli di Nola: dai Gigli oggi vengono suonate canzonette, marcette, e non le tammurriate della tradizione contadina, eppure la festa dei Gigli di Nola ha una sua continuità, anche se si tratta di un festival più che di una festa. Credo insomma che il discorso della tutela debba essere distaccato da un approccio antropologico, il quale non deve riconoscere “beni” e “mali”, perché il concetto di bene si lega al concetto di utile, a ciò che va accumulato, a ciò che tranquillizza, a ciò che può essere scambiato, ma non è questo il progetto dell’antropologia. Io penso che l’antropologia debba invece studiare come si articolino determinati fenomeni nella continuità, deve chiarire i punti di vista, anche quelli che rischiano chiaramente di essere ottocenteschi, di stampo positivista. Oggi l’antropologia ha fatto molti passi avanti, e grazie anche all’apporto di intellettuali eretici come Scotellaro, Pasolini, Dolci, Revelli si occupa anche di autobiografia, di scritture contadine, portando il discorso dei contadini dentro l’accademia. Lentamente si è passati dal considerare il mondo contadino come essenzialmente legato all’oralità al connetterlo con la modernità: io mi sono occupato dell’autobiografia di un cantastorie con la quinta elementare, Vito Santangelo, che dal 1974 ha iniziato a scrivere tutta la sua vita. Dunque il mondo contadino non è più quello pregramsciano, idealizzato dal romanticismo: Goethe nel suo viaggio in Sicilia cadeva in stereotipi di tipo orientalista, e d’altra parte la Sicilia era un po’ come il Bangladesh di oggi.
Il punto di vista è fondamentale: se allestiamo un museo degli attrezzi agricoli bisogna chiarire il ventaglio mutevole degli usi ad essi connessi. Insomma, di quali pratiche stiamo parlando? Di quelle del bracciante oppure di quelle di Candido, il barone feudatario descritto da Sciascia, che per dimostrare di essere “vicino ai contadini” – così come Fernando di Borbone era “vicino” al popolo napoletano per il solo fatto che parlava la lingua – si mette anche lui a coltivare un pezzetto di terra per l’orto, con gli stessi attrezzi, gli stessi utensili dei contadini sfruttati? È sicuramente più facile tutelare gli archivi, le biblioteche, i musei archeologici: bene o male all’interno di un archivio puoi trovare carte che parlano di Garibaldi come di un eroe e altre che dicono il contrario: sono tutte e due consultabili ed è possibile accedere a fonti diverse. Ma se parliamo di beni cosiddetti immateriali la cosa si complica molto: se già un libro non esiste se non nella molteplicità delle letture che ne possono essere date, in una festa questa variabilità si moltiplica in modo esponenziale. Perlomeno in un caso – il libro – abbiamo un testo scritto, ma nella festa, o di un canto, non c’è: è un miscuglio di visivo, di orale, di musicale, di simbolico, di politico.
Il rischio della valorizzazione dei beni immateriali è che vengano utilizzati, magari in modo più “raffinato”, gli stessi quadri conoscitivi che alimentano il mercato folkloristico e turistico. Appunto per questo il campo della tutela non dovrebbe sovrapporsi a quello dell’antropologia, e un antropologo non dovrebbe addentrarsi nella scelta di cosa va tutelato e cosa no. La disciplina per funzionare deve paradossalmente smettere il suo essere disciplinare, non deve scegliere; l’antropologo può invece collaborare, può segnalare sviluppi, aperture, contraddizioni».

L’Opera dei Pupi è già stata riconosciuta come capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità dall’Unesco. È possibile che ci sia un riconoscimento equivalente per il patrimonio rappresentato dai cantastorie?

«Ritorna qui la questione del punto di vista: forse il teatro dei Pupi gode di un riconoscimento tanto importante perché vincono sempre i cristiani e perdono sempre i pagani? I Pupi riportano sulla scena i valori della regalità della feudalità, della sottomissione al più forte, della cristianità armata qual era quella di Orlando, mentre invece i cantastorie queste cose le demoliscono; basti analizzare come il repertorio epico-cavalleresco viene trattato dai pupari e come viene trattato dai cantastorie per trovarsi di fronte a due prospettive completamente diverse. I cantastorie scavano nella Chanson de Roland, nei repertori medievali e rinascimentali; i pupari nascono in Sicilia nell’Ottocento e attingono alle rivisitazioni romantiche dello stesso repertorio, perdendo così alcune caratteristiche. Nella Chanson de Roland a un certo punto Orlando – mentre sta morendo – sembra accennare ad un pentimento; muore da cristiano con la croce stampata sulla corazza e con la Durlindana in mano, che tra l’altro nell’incrocio tra l’elsa e la lama contiene un reliquiario dove si conserva un pezzettino della croce di Cristo. Ma con quella stessa spada lui ha ammazzato i Saraceni a migliaia! Nel momento della morte si ricorda del perdono e del cristianesimo non armato. Ignazio Buttitta, grandissimo poeta cantastorie, commenta così il perdono improvviso di Orlando: “cu sapi si u Signuri u fa trasiri ‘nto u Paradisu!”. In questo modo il cantastorie mette in discussione implicitamente l’icona di Orlando come Cristo armato, primo Paladino di Francia e condottiero valoroso: non è affatto sicuro che il Signore lo accolga in Paradiso.

I cantastorie dunque esplicitano le contraddizioni, e non hanno una scena predefinita; i pupari invece non fanno altro che ripresentare i valori del mito. La spada che muovono i paladini dipende direttamente dalla bacchetta che tengono in mano i pupari: è una spada che separa il valore dal disvalore, la cristianità dalla paganità. Dunque c’è sempre una scelta di carattere etico-politico dietro la tutela, ma quando si arriva alle scelte cessa l’antropologia, perché l’antropologo più non sa più è tale. Un altro esempio della parzialità dei punti di vista è la gestione dei simboli festivi che diventa motivo di consenso. Io sono stato a Priverno a vedere una straordinaria festa del Venerdì Santo, e si vedevano chiaramente le contraddizioni enormi tra una festa basata sul silenzio e il megafono della chiesa nuova che rompeva quell’equilibrio simbolico.
Il contributo che l’antropologo può dare alla tutela è fare scattare questi ragionamenti. Nell’arco di decenni si può arrivare a progetti di tutela più consapevoli e rispettosi. L’antropologo non fa ricerca come l’astronomo che studia le stelle; l’universo dell’antropologo si modifica mentre ci sei dentro, non è possibile documentare alcuna realtà oggettiva: la realtà è frutto della descrizione che ti fanno quegli uomini, quelle donne e non altri, di quella che fai tu in questo momento e in questo luogo, diventa un fatto quasi esistenzialista. Ci sono dei musei per esempio in cui questo aspetto creativo non viene taciuto, anzi viene messo in primo piano. Non è, ad esempio, il museo “del brigantaggio”: è il museo del brigantaggio fatto da questi informatori e da questo studioso con questa visione. Allora diventa come un libro, o un quadro e là l’assunzione della poetica è importante.
Compito dell’antropologo è fare insorgere dei dubbi che a lungo andare rendono più consapevole chi è predisposto alla tutela a un maggiore rigore scientifico».

Qual è la modernità del cantastorie? Quale la sua identità oggi?

«All’interno di ogni ambito socio-culturale ci sono zone che non sono affatto improntate alla cosiddetta “tradizione”, anzi tutt’altro. Il cantastorie esattamente come il pittore o lo scrittore deve variare la sua arte. Se uno va a cantare sempre la Baronessa di Carini o Orlando e Rinaldo o la leggenda di Colapesce, non è un cantastorie, ma la macchietta stereotipata di esso. Però paradossalmente quando si tenta di “valorizzare” il cantastorie vince lo stereotipo dell’”ultimo”, di quello che canta le “cose antiche”, ma a ben vedere non c’è nessuna antichità da rivendicare. I cantastorie nascono con la modernità, nel momento in cui dopo la Prima Guerra Mondiale la canzone si comincia un po’ ad americanizzare, si sviluppano le prime forme di disco, si afferma più robustamente una cultura nazionale e internazionale, di massa, ed è a questa che i cantastorie si rivolgono. Non è un fatto locale; la tradizione viene continuamente ripensata, i mezzi di comunicazione si rinnovano – tutti i cantastorie oggi hanno siti internet – ed il loro sapere è basato non sulla tradizione ma sull’innovazione. È l’aspetto moderno dunque che andrebbe tutelato e non lo stereotipo del cantastorie come ultimo relitto di un medioevo disneyano. Se invece si colloca il cantastorie in un museo o in una manifestazione gestita – mettiamo – dalla pro loco con fini di promozione turistica, di fatto gli si sta sottraendo il suo spazio ideale che è la piazza, telematica o reale che sia. I cantastorie riflettono su questioni della vita contemporanea, scrivono della guerra in Iraq, cantano la violenza sulle donne: è questo spessore critico che andrebbe valorizzato nel restituire la piazza come spazio libero ed imprevedibile di riflessione pubblica.
Un po’ come l’antropologo il cantastorie prima di scrivere un testo si deve documentare, parla con i diretti protagonisti, legge i giornali, si informa, assembla i materiali e cerca di ricostruire – senza levare e mettere, come diceva Orazio Strano – una versione poetica dei fatti. Che non è definitiva; viene poi musicata e cantata in piazza, quindi sottoposta al giudizio pubblico, e magari commentata, interrotta, evidenziata in un passaggio invece che in un altro. È una versione scritta che viene riesposta alla riflessione collettiva, un sapere sempre in movimento. Il cantastorie si estranea dal proprio giudizio, magari è di parte ma denuncia questa parzialità, offrendo gli elementi per attaccare, contrastare, ripensare insieme un fatto. Il cantastorie è mediatore nel senso più pieno del termine perché utilizza diversi mezzi – oralità, pittura, musica, gestualità, grafica – e la storia che narra viene spaccata in più canali comunicativi, ma anche perché presenta una storia “esterna”, che deve poi però rappresentare in prima persona, incarnando il personaggio, il bandito, il carabiniere, la mamma; possiamo dire dunque che si muove di continuo tra presentazione e rappresentazione».
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Messaggio Da Cantastorie Ven 11 Dic 2009, 19:58

aggiungo...a futura memoria quattro links che mi sono salvata gironzolando online su tre poeti-cantastorie siciliani che hanno varcato lo Stretto intorno alla metà degli anni 60... entrando anche nel circuito di ispirazione scambio-racconti con D. Fo e il su' MisteroBuffo a prop di storie medievali e di giullari sotto dominazioni forestiere OCCHEI!

http://www.csssstrinakria.org/buttitta.htm biografia e lavori di Ignazio Buttitta
http://www.antiwarsongs.org/do_search.php?lang=it&idartista=1825&stesso=1 Ciccio Busacca
http://www.licataweb.it/cultura/personaggi_illustri/rosa_balistreri.html Rosa Balestrieri - biografia
http://web.tiscali.it/ddisaarchivi/Arch_testi/NARRAZIONI/Rosa%20Balestrieri.htm 20 testi di canzoni di R. Balestrieri
http://www.musicameccanica.it/antologia_trincale.htm su Franco Trincale

http://www.musicameccanica.it/antologia_galleria_grandi.htm Questa invece è una "pagina riassuntiva" di varie foto-nominativi di Cantastorie italiani del 900


La segnalazione dell'ultimo dei siti indicati qui fu a suo tempo di Ubik, che ringrazio anche adesso

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Messaggio Da ubik Ven 11 Dic 2009, 20:23

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Messaggio Da ubik Ven 11 Dic 2009, 22:08

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Messaggio Da Cantastorie Sab 12 Dic 2009, 13:54

Grasssie assaie per le immagini evocative OCCHEI!
..
Prima di continuare, a proposito di Guccini, non sono riuscita al momento a ricostruire quanto ricordavo sopra, ma ho trovato online alcuni riferimenti a Guccini come partecipante a Improvvisazioni poetiche a ottave ...
http://www.provincia.pistoia.it/sentieriacustici/

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Messaggio Da Cantastorie Sab 12 Dic 2009, 14:09

Poichè nel secondo dopoguerra, uno dei filoni piu' vivaci ed innovativi fu quello che si esprimeva utilizzando il dialetto napoletano/siciliano, mi sembra quantomeno doveroso citare alcuni tratti della canzone napoletana che specie fuori d'Italia (nei paesi di arrivo delle migliaia di emigranti che in piu' periodi lasciarono il nostro paese specie tra la fine dell'800 e la metà degli anni 50) spesso è stata totalmente identificata con la canzone italiana.
Sulle origini e la diffusione della canzone napoletana

In Spoiler, riporto una breve storia della canzone nap..
Spoiler:
A proposito della diffusione popolare ..


http://www.interviu.it/canzone/feste/piedigrotta.htm

LE FESTE ESTIVE
Le Piedigrotte



LA PIEDIGROTTA DEL 1895

di Ferdinando Porcelli e Rosaria Maggio

La ricostruzione di una Piedigrotta ci offre l'opportunità di mostrare l'articolazione territoriale, economica, organizzativa di una festa che a partire dagli anni intorno al 1880 cominciò a cambiare fisionomia, trasformandosi dapprima in momento di diffusione delle canzoni che annualmente gli editori musicali rendevano pubbliche tramite giornali e riviste, quindi in un momento pubblicitario per merci e per nuovi modi di consumare, ed infine definì un nuovo uso del territorio, divenendo un momento in cui la città metteva in scena se stessa e quelle che voleva definire come le sue caratteristiche e potenzialità.
Il modello della Piedigrotta delle canzoni funzionò per l'ideazione delle Feste Estive che nel 1894, proprio l'anno precedente quello da noi prescelto, furono promosse e finanziate per la prima volta dall'Associazione Commercianti, sostenuta dalla stampa cittadina, in collaborazione con le autorità comunali e con il Banco di Napoli.
Le Feste Estive consistevano in un fitto programma di gare sportive, spettacoli, esposizioni, concerti, tornei che duravano da luglio a settembre per culminare nella annuale celebrazione della Piedigrotta. In quest'ambito gli stabilimenti balneari e quelli termo-minerali, i café-chantante i ritrovi più eleganti organizzavano speciali programmazioni di spettacoli; si predisponevano calendari di gite nel golfo; la Villa Nazionale, Piazza Plebiscito e la Galleria Umberto ospitavano quotidianamente concerti gratuiti; i comuni vesuviani preparavano i loro "trattenimenti e svaghi estivi"; la Società Nazionale delle Strade Ferrate e la Navigazione Generale d'Italia concedevano particolari agevolazioni per il prezzo e la durata dei biglietti dei viaggiatori diretti a Napoli.

-----------
Anche la festa di Piedigrotta del 1895, dunque, si inscriveva nell'ambito delle Feste Estive che ne rappresentavano in qualche modo l'enfatizzazione e l'ampliamento. In questo secondo anno, le feste ebbero carattere di particolare ricchezza e il loro programma, oltre a essere diffuso come già l'anno precedente tramite quotidiani e periodici, fu oggetto di un opuscoletto particolarmente curato: la Guida Programma Ufficiale per le Feste Estive che - oltre a una breve sezione di letteratura amena - racchiudeva indicazioni utili come gli orari di treni e battelli da e per la città. In più, il Comitato Generale delle Feste Estive, di cui facevano parte eminenti personalità cittadine, letterati, musicisti, poeti, commercianti e industriali e che si avvaleva di sovvenzionamenti privati e comunali, aveva fatto pubblicare dall'editore Tocco un volume dal titolo Napoli. Storia, costume, igiene, clima, edilizia, risanamento, industria redatto anche da medici, igienisti, scienziati, in cui si elogiavano le attrattive climatiche, paesaggistiche, storiche e di costume della città.

..............................

Nel recinto della Villa durante la settimana di Piedigrotta - dunque nuovi e diversi motivi di piacere si sommavano a quelli cui i napoletani erano già stati abituati durante tutta l'estate: il 4 settembre ebbero luogo i quadri viventi - Nerone che assiste all'incendio, Apollo e le nove muse e Un duello dopo il ballo, ispirato quest'ultimo a un quadro di Gerome - per la scenografia del conte Antonio Coppola. Oltre al diletto per gli spiriti raffinati costituito dai quadri viventi, si pensò anche allo svago per le anime semplici, rappresentato dagli alberi della cuccagna, eretti in Villa 1'8 settembre.
Ma Piedigrotta non sarebbe stata completa senza le sfilate. Nel 1895 se ne tennero tre: quella dei carri, quella dei giornalai e la grande fiaccolata dei Tre regni della natura e le grandi invenzioni.
La sfilata dei carri era organizzata anch'essa nella modalità del concorso. I carri sfilarono attraverso la città per due volte: nella mattinata e nella serata del 7 settembre su un percorso che partiva dal Museo Nazionale e, lungo via Toledo, raggiungeva Piazza Plebiscito, quindi Santa Lucia, il Chiatamone e infine il recinto delle feste della Villa, dove i figuranti e i musicisti dei carri replicarono per due volte le loro canzoni. I carri furono 19, le canzoni qualcuna in più perché - come ad esempio sul carro Café Chantant sul quale si cantarono Café Chantant e 'A novità di Gabriele Marra - su alcuni carri si eseguirono più canzoni. Con 150 lire furono premiati (1° premio ex aequo) i carri Il voto (canzone 'O Vuto di Federico Cozzolino e del M° Albin, eseguita dagli eccentrici del S. Carlino); I Molinari alla festa (canzone Friccecarella di Nicola Marfé e Carmine Marino); Cesta di fichi (canzone So' d"o ciardino overo di Luigi Russo e Enrico Caino). Con il secondo premio ex aequo furono inoltre premiati i carri: Costumi napoletani, Carro Campestre, Corbeille, Pacchiani sul somaro.



Come si vede, in questa fase della festa la trasformazione del carro da mezzo di trasporto dei pacchiani dei casali e dei paesi limitrofi per il pellegrinaggio alla Madonna di Piedigrotta (quei carri su cui si cantavano le tammurriate e i canti 'a ffigliola in onore della Vergine) in carro allegorico stava avvenendo abbastanza lentamente. Prevalevano, infatti, gli allestimenti facilmente ottenibili con modeste modifiche ai carri agricoli di tipo tradizionale............
Ad attendere cavalcata e carri, una giuria formata, fra gli altri, da Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Eduardo Matania, Enrico De Leva, Roberto Bracco.
Tutti i costumi erano forniti dalla ditta Falanga, le armature da Salvatore Giuliano (noto armiere teatrale), le attrezzature dalla ditta Tammaro Mangini e i cavalli della ditta Forgione. Le forze economiche e commerciali cittadine - oltre che procurare forza lavoro intellettuale e organizzativa, e sostegno economico alle iniziative - svolgevano un ruolo nella produzione della festa anche nella offerta gratuita di merci, costumi e attrezzature per le principali messe in scena.
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Ma gli eventi più attesi, quelli che si prevedevano più seguiti, erano naturalmente i concorsi delle canzoni: al solo concorso del Ciardino delle Feste, bandito dal Comitato per le Feste Estive, parteciparono oltre cento canzoni. Ma il numero delle canzoni che furono scritte quell'anno in città è senz'altro più imponente (4).
Concorsi di canzoni furono promossi dai giornali Napoli Musicale e Diavolo Rosso e dall'impresa del teatro Grande Esedra; vi fu un concorso Fiorillo (presumibilmente bandito dai proprietari del ristorante Ai Due Leoni in piazza Municipio), uno indetto dal Circolo Musicale Fenaroli (quest'ultimo - secondo il Roma del 6 settembre - patrocinato anche da Il Mattino); un concorso ebbe anche la casa editrice Pisano, il cui negozio di musica era in Via Toledo, e naturalmente vi fu quello che Bideri lanciò attraverso la sua rivista La Tavola Rotonda. Ricordi, invece, non bandì - né era sua abitudine - alcun concorso, limitandosi a presentare in più occasioni e in diversi luoghi la sua produzione per quell'anno: produzione già stampata in un elegante volumetto di soli testi, illustrato da Scoppetta e intitolato Chi chiagne, chi ride. Canzoni furono pubblicate inoltre su tutti i principali giornali quotidiani e periodici: dal Roma, all'Occhialetto, dal Don Marzio, al Fortunio, da 11 Mattino a Le Varietà. Canzoni vennero eseguite in vari giorni, diverse occasioni e in più luoghi. Il Giardino delle feste in Villa Nazionale il 5 e 6 settembre ospitò l'esecuzione delle circa venti canzoni selezionate dal concorso del Comitato per le Feste Estive; fra gli interpreti, Diego Giannini e Emilia Persico. In questo concorso l'editore Santojanni fu particolarmente favorito dalla sorte (e dalla giuria) e portò al successo tre sue canzoni - Ndringhete ndrà! di De Gregorio e Cinquegrana; Girulà di Califano e Nutile; 'E Cataplaseme di Capurro e Di Chiara, tutte pubblicate da L'Occhialetto - che si aggiudicarono primo, secondo e terzo premio.


Al Gran Circo delle Varietà, al Chiatamone, il 1 settembre ebbe luogo il concerto del M Vincenzo Galassi, esecuzione delle canzoni di Piedigrotta delle edizioni Ricordi. I solisti furono Maria Masula, Nunziatina Lombardi, Raffaele De Rosa, Giuseppe Giusti. Furono eseguite canzoni di Vincenzo Valente, Mario Costa, Enrico De Leva; fra gli autori dei testi Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
All'Eldorado- stabilimento balneare di giorno, ritrovo elegante di sera, inaugurato il 16 luglio 1894 a Santa Lucia di fronte a Castel dell'Ovo il 1 settembre ebbe luogo l'audizione delle canzoni del concorso de La Tavola Rotonda: fra gli interpreti Amelia Faraone, Emilia Persico, Nicola Maldacea, Ciccillo Mazzola. La canzone vincitrice fu Don Saverio di Vincenzo Valente e Pasquale Cinquegrana, nell'esecuzione di Nicola Maldacea. Altri premi furono assegnati a 'O frate 'e Rosa (ed. Santojanni) di E. Di Capua e P. Cinquegrana; Venezia benedetta! di G.B. De Curtis; I' voglio bene a te di S. Gambardella e P. Cinquegrana; I' só franco 'e cerimonie di P. Guida, G.B. De Curtis; Cerasella di A. Califano e P. E. Fonzo; Crestina 'e Mondragone di A. Mancini e P. Cinquegrana.

Ma le esecuzioni di canzoni non si fermarono qui: al Teatro Sannazaro, in via Chiaia, il 4 settembre si svolsero le prove generali delle canzoni del concorso delle Feste Estive; sotto le finestre del Corriere di Napoli ebbe luogo il concerto-serenata 'E bellezze 'e Napule, diretto da Nicolò Evangelista; al Circolo Musicale Fenarolisi cantò Fatte vasà di Paolino Stefanile e A.F. Alfano; fra il 12 e il 16 senembre in Piazza Plebiscito e al Caffè Gambrinus si replicarono più volte le canzoni di Ricordi; il 26 settembre in Galleria Umberto 1°, al Caffè Starace (divenuto poi nel 1899 Caffè Calzona) quelle de La Tavola Rotonda.
La canzone era, dunque, il momento centrale delle festività piedigrottesche; tutto il complesso sistema editoriale, spettacolare, organizzativo, distributivo e di consumo che ad essa faceva capo - nel suo sforzo di utilizzare i linguaggi e le risorse cittadini in modo nuovo e per nuovi fini aveva provocato profondi cambiamenti nella festa tradizionale: erano nati nuovi riti, nuovi "pellegrinaggi", nuove mete per le feste settembrine.
.....................

Di conseguenza si accrebbero la complessità della festa, la sua articolazione e naturalmente aumentarono la specializzazione, la divisione del lavoro, la gerarchizzazione degli apparati e delle organizzazioni che presiedevano alla sua preparazione. E aumentò l'importanza economica della festa stessa, e non solo per i visitatori che essa portava a Napoli, o perché a partire dalla Piedigrotta gli editori musicali prendevano il via per "esportare" le loro canzoni anche nel resto d'Italia e del mondo. Carri, fuochi pirotecnici, sfilate, fiaccolate, palchi, pedane, chioschi, recinti nascevano dal lavoro di ideatori, organizzatori, finanziatori, architetti, scenografi, impresari, ma anche da quello di sarti, fuochisti, carpentieri, artigiani, decoratori; le canzoni erano il frutto della creatività di autori, musicisti, illustratori, dello spirito imprenditoriale degli editori, ma richiedevano l'impiego di compositori, tipografi, piegatori, spedizionieri: Piedigrotta era una grande occasione di lavoro - e richiedeva un'alta qualità di lavoro - per molte persone.



1 Notizie tratte dal Fortunio, 10 luglio 1895, 20 luglio 1895
2 Notizia tratta dalla Guida programma ufficiale delle Feste Estive, Napoli, Tocco, 1895.
3 Tutte le notizie del paragrafo sono tratte dal Fortunio, Don Marzio, Roma, Il Pungolo Parlamentare, Corriere di Napoli, Il Mattino, L'Occhialetto, La Tavola Rotonda dei giorni fra l'1 e il 15 settembre del 1895, confrontate e incrociate fra loro.
4 L'elenco riguarda solo le canzoni di cui si sono travati gli spartiti o quelle della cui esecuzione si è appresa la notizia tramite la consultazione dei giornali. Il numero delle canzoni effettivamente eseguite e satmpate potrebbe, dunque, essere più grande di quello indicato.

Tratto dal catalogo: Piedigrotta 1895-1995
Progetti Museali Editore, Roma 1995

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Messaggio Da Cantastorie Sab 12 Dic 2009, 14:42

tratto da Qui

LA CANZONE NAPOLETANA NELLE SUE MANIFESTAZIONI

CANZONI A BALLO

Il ballo è sempre stato, sin dai tempi più remoti, nella coscienza di tutte le popolazioni, indipendentemente dal loro grado di civiltà. Ricordava avvenimenti, concorreva a celebrare riti religiosi, s'introduceva nei cerimoniali funebri e nelle pratiche degli stregoni. In genere era accompagnato, oltre che dagli strumenti in uso, dal canto. Napoli seguì la sorte comune a tutti gli altri popoli, e fino ai '700, le canzoni a ballo ebbero la preponderanza sugli altri canti. Anzi, parecchie canzoni, secondo notizie che diventano sempre meno vaghe a partire dai '400, prendevano addirittura il nome dai nuovi balli.

LA BALLATA, che vuoi significare proprio «aria da cantare ballando», pur diventando, nel 1300, per merito dei poeti toscani, un componimento dotto e aristocratico in Italia, come in Francia e nella Spagna, continuò ad essere popolarissima a Napoli, fino al '600. Lasciando da parte lo strambotto, che spesso integrò ballate e canzoni a ballo, e trascurando nomi di balli di poca importanza, si elencano, qui di seguito, quelli che ebbero maggiori rapporti con la canzone napoletana:

LA VILLANELLA - Nata a Napoli verso la fine del '400, da un ballo campestre - come è stato scritto nelle precedenti pagine - ebbe vita fino al '700.

LA CHIARANTANA - Già nota agli inizi del '400, fu diffusissima a Roma e a Firenze nel secolo successivo. Nello stesso periodo fu nota a Napoli.

LA CATUBBA -
Ballo napoletano, (alcuni lo dicono proveniente dalla Turchia), impiantato sull'imitazione dell'andatura degli ubriachi, nato verso la fine dei '500, fu uno dei più comuni fino a tutto il '600. Il delizioso poeta napoletano Filippo Sgruttendio scrisse alcune poesie per catubbe, pubblicate nel suo canzoniere «La tiorba a taccone».

Lo TORNIELLO - Ballo in giro, sorta di girotondo. Noto in mezza Europa e in Italia, dai toscani fu chiamato Carola. Diffuso nel Medio Evo, si voleva che fosse nato in Francia, anche se oggi è provato trattarsi di un antico canto popolare inglese. A Napoli si ballò specialmente nel '500 e nel '600.

Figurazione del Ballo Lo Torniello. Disegno di Callot, dalle Oeuvres - Ediz. 1701

LA CASCARDA - Fu nota in tutta la penisola e si ballò (in tempo 3/4 e 3/8) anche a Napoli, nel '500 e nel '600. Bartolomeo Zito, nel commento al poema napoletano di G. C. Cortese, elenca dodici titoli di canzoni a tempo di Gascarda, fra cui: Serenella, Gunto dell'uorco, Roggiero vattuto, Io vao cercanno e nen nne saccio nova, Guarda de chi me jette a nnammorare.

BALLO DI SFESSANIA O LA LUCIA
- (Dal quale derivò anche La Ntrezzata o L'Imperticata, una sorta di danza delle spade, che si svolgeva agitando dei bastoni inghirlandati di fiori). Trattasi di danza figurata e molto movimentata, formata da numerose coppie. Jacopo Callot (1592-1635) la illustrò in una serie di deliziosi disegni pubblicati nel 1620. Secondo il Del Tufo, fu importata da Malta. A Napoli, con le sue varianti, fu nota verso la metà del '500 e la sua popolarità aumentò col passare degli anni, per diminuire nella seconda metà del '600, finché non sfociò nel più celebre e affascinante ballo napoletano di tutti i tempi. La Tarantella, (vedi).
Versi di Ntrezzate e Lucie si possono leggere nel succitato Canzoniere di Filippo Sgruttendio, ma anche altri poeti e musicisti si cimentarono in questo genere.

LA GAGLIARDA
- Proveniente dalla campagna romana, fu in voga in tutta Italia e in Europa. Dall'inizio dei '500 ebbe vita fino alla metà del secolo successivo e si unì alle più apprezzate danze delle case principesche e reali. Il suo ritmo, vivace, era di 3/2. Una gagliarda a forma di villanella fu musicata da Baldassarre Donato (Chi la gagliarda, donne vo' imparare - Venite a noi che siamo mastri fini), e pubblicata a Venezia nel 1558. Ma, prima ancora, nel 1541, era stata musicata e pubblicata da Giovan Domenico Del Giovane.

LA CIACCONA - A parte l'importanza che ebbe nel campo della composizione musicale classica italiana e straniera, la ciaccona fu conosciuta a Napoli come ballo licenzioso, importato dalle prime compagnie teatrali spagnole, verso il 1620. Purificata dai maestri di ballo napoletani, conquistò rapidamente i giovani napoletani e fu ballata fino alla metà del '700. Le canzoni a tempo di ciaccona, che fu anche volta al maschile, il Ciccone, furono abbondanti, e moltissime se ne trovano nelle opere buffe del '700. Solamente la Tarantella poté far dimenticare a Napoli questo ballo.

IL ROGGIERO - Doveva essere una delle tante musiche a ballo create dal girovago Masto Roggiero «rapsodo della canzone» e autore di arie e villanelle. Il Roggiero si cominciò a ballare a Napoli sulla fine del '500 e resistette fino al primo ventennio del '700.

LA TARANTELLA - Nel '700, con la comparsa della Tarantella, i napoletani abbandonarono quasi del tutto gli altri balli per riversarsi, entusiasti, sul nuovo ritmo. La Tarantella, nata nella seconda metà del '600 dalla Sfessania, dalla Ntrezzata e da altre ancora (vedi pagine precedenti), col suo tempo indiavolato, 3/8 o 6/8, con le sue figurazioni di corteggiamento e conquista, si presentava, infatti, come una delle danze più attraenti. Nelle campagne, sulle spiagge, sulle terrazze di Posillipo, nelle piazze, nelle bettole, a suon di nacchere e tamburelli, - quando non intervenivano altri strumenti come la chitarra, di gran moda, clarinetti o flauti - non si ballava che la Tarantella. Bastava un gruppo di ballerini di tarantella per attirare folla e forestieri. Diverse diecine di scrittori stranieri l'hanno descritta nei loro libri, in diari e corrispondenze, e parecchi musicisti classici si ispirarono ad essa per comporre musiche sullo stesso ritmo, da Auber a Chopin, da Liszt a Mendelssohn, da Rossini a Bellini, da Donizetti a Ricci, autore quest'ultimo, di una delle più celebri tarantelle, inserita - ballata e cantata - nell'opera buffa Piedigrotta. Di canzoni a tempo di tarantella si è parlato, e ancora se ne parlerà, per l'abbondanza delle composizioni avutesi nell' '800 ed oltre, fino ai tempi nostri. Aggiungo, per chi ne volesse sapere di più, che è di pochi anni fa, 1963, la pubblicazione di un bei saggio - davvero esauriente - di Renato Penna, sulle origini e le vicende della tarantella. Per la prima volta si congettura come essa possa risalire al tempo della corte aragonese, cioè al 1450.

Nei '600, e maggiormente nel '700, le ragazze del popolo impazzivano per il ballo, tanto da far dire al poeta Velardino Bottone nella sua commedia Lo Barone de Trocchia, musicata da Leonardo Vinci e rappresentata al Fiorentini nel gennaio del 1721: Non c'è fegliola a Napoli -che non saccia de museca e d'abballo (Non v'è ragazza a Napoli che non sappia di musica e di ballo). Si ballava, oltre la Tarantella, il Minuetto - d'origine francese e apprezzato dalle case blasonate - la Controdanza e la Gavotta, arrivate a noi sulla eco dei successi inglesi. In conseguenza, i "maste abballature" (i maestri di ballo) che nel '500 formavano soltanto un piccolo gruppo, divennero tanto numerosi da avvertire la necessità di inserirsi nelle corporazioni di cui già facevano parte musicisti, cantanti, girovaghi e simili, tutti beneficiati da regolamenti che prevedevano soccorsi per disoccupazione, malattie, invalidità, maritaggi per le figliuole, sepolture. Qualcosa di più, come si vede, dei moderni istituti di assistenza. Canzoni per argomenti sacri, con musiche appropriate, esistevano da anni; ma, essendo diventato, di fatto, 'indispensabile il ballo nella vita dei napoletani del '700, alcuni ecclesiastici credettero opportuno di scrivere canzoncine religiose sui motivi dei ballabili più in voga. Ho il piacere di possedere un raro libriccino riportante alcune di coteste canzoncine, stampato nel 1744 da Giovanni Di Simone: «Canzoni nuove, divote, belle - Secondo i suoni della chitarra, e sì d'ogni altro strumento - dedicate - a' valenti sonatori - da un Fedel di Gesucristo". Nella prefazione, "il Fedel di Gesucristo" racconta che "udendo suoni e canti d'un gran valente maestro sonator di chitarra, il quale fu da un buon amico a lui recato per sollazzarlo; i canti udendo, lasciamo stare senza forma di metro, di rime, laidi assai per la materia sporca, scandalosi a concupiscenza svegliare infocare... " si convinse dell'utilità di adattare canzoni spirituali ai ritmi in voga, sì che, pur soddisfacendo al desiderio di ballare dei giovani, avrebbero, però, evitato di portare nocumento alla salute delle loro anime. Anzi, lui stesso ne scrisse e ne stampò. Fra le tante, figurano: Della potenza del Padre Eterno (al suono nominato della tarantella), Dell'Incarnazione di Gesucristo e morte (al suono di Roggiero), A Nostra Signora (adattabile al suono della Siciliana), A Nostra Donna Dolorata (al suono flebile simile al Roggiero), e via di seguito. E non si commenta, perché, indubbiamente, nel "Fedel di Gesucristo" c'era una perfetta buona fede! Compreso quel peccatuccio di presunzione commesso nel definire «belle» quelle sue canzoni.

Ed ora non dispiacerà, credo, che io qui inserisca un accenno alle «quadriglie» di Carnevale ed ai «Cartelli», che non erano altro se non carri allegorici, come quelli che si sono sempre visti alla festa di Piedigrotta, e programmi (cartelli) con poesie, o canzoni, presentati separatamente da categorie di piccoli commercianti o artigiani. Non hanno nulla a che vedere con le canzoni a ballo, è vero, ma con esse costituiscono pur sempre un interessante segno del costume dell'epoca. Verso la fine del '600, a Napoli, con l'inizio del Carnevale, si usava intonare canti carnascialeschi ed allestire feste di cuccagna. Setajuoli, armieri, carrozzieri, berrettieri, macellai, e numerose altre associazioni di arti, mestieri e venditori, si organizzavano per dar vita alle manifestazioni note col nome di «quadriglie delle arti». I vari gruppi erano composti esclusivamente da uomini mascherati e indossanti vesti fantasiosamente strane; così acconciati, i gruppi si esibivano in balletti dinanzi al viceré, alla viceregina, ad alti dignitari e nobili, mentre i popolani, che tutt'intorno facevano corona, applaudivano o schernivano, a seconda degli umori. Dopo di che, i carri allegorici (quadriglie), percorso che avevano per intero la via Toledo, raggiungevano il largo di Palazzo per sostare proprio sotto il balcone donde si affacciava il viceré. Qui si cantavano le canzoni che ciascun gruppo aveva fatto comporre per l'occasione, appunto per magnificare la propria attività e far risaltare i propri prodotti che ne erano oggetto. Alla fine, i carri, traboccanti di ogni specie di commestibili (pani, prosciutti, capretti, salcicce, polli, formaggi e altro), venivano abbandonati al saccheggio della plebe che muoveva all'assalto tra violenze di. ogni sorta. Lo spettacolo era orrendo e gli effetti disastrosi: urla, pugni, calci, contusi, feriti, e del carro, compresi i buòi o i cavalli, non rimaneva nemmeno l'ombra. Le «quadriglie ", le troviamo ancora in voga verso la metà del '700, senza, però, la selvaggia usanza della "cuccagna". Cavalcate e carri allegorici continuavano a reclamizzare merci e prodotti, bottegai e commercianti; ciascun raggruppamento, con un esaltante manifesto, annunciava la propria esibizione, ne illustrava lo svolgimento e pubblicava la canzone, o la poesia, scritta di proposito. Il notaio Trinchera e Giacomo Antonio Palmieri, furono tra i più fecondi autori di poesie (come si è detto, si chiamavano " cartelli ") per "quadriglie", insieme con altri che sono rimasti sconosciuti. Alcuni titoli di chiara indicazione: Li padulane, Li panettiere, Li casadduoglie, Li maccarunare, Li canteniere, Li ciardeniere, Li pisciavinnole, Li chianchiere, e via di seguito. In altre pagine, se ne pubblica qualcuna.

La Tarantella, nel 1800, anziché tediare come tutte le cose che si ingurgitano in abbondanza, mantenne costante, anzi, accrebbe l'entusiasmo che aveva suscitato fino allora. Proclamata «ballo nazionale» nello scorcio del secolo precedente, continuò a interessare popolani, salotti eleganti, forestieri, scrittori, musicisti. Si formarono troupes di tarantella che al suono di nacchere e tamburelli nonché degli strumenti più di moda - violini, mandolini e chitarre - portarono la napoletanissima danza in giro per l'Italia e all'estero, comprese la Russia e l'America. Molte canzoni furono musicate su quel ritmo; tutti i compositori, dal primo all'ultimo, ne furono suggestionati. Tra gli altri: Labriola, Biscardi, Florimo, Cottrau, Acton. Ad essi seguirono quelli della nuova leva: Costa, con i versi deliziosi del Di Giacomo; Vincenzo Valente, Di Capua, Di Chiara, Gambardella, e, nel primo quarto del '900, Nicola Valente, Cannio, Falvo, Tagliaferri, E. A. Mario e tanti, tanti fino ai giorni nostri.

VALZER ED ALTRE. Non mancarono, sin dai primi anni dell' '800, canzoni a Valzer, un ballo che, nato in Austria nella metà del '700, non tardò ad invadere tutta l'Europa. Il suo tempo, 3/4, e il movimento variato - lento allegro e allegretto - ancora oggi ingentilisce un certo tipo di canzoni nostre. Neppure il tempo dei 2/4 della polka - danza nata in Boemia - passo inosservato ai nostri canzonieri (Cannio, nel secondo decennio del '900, su testi spassosissimi fornitigli dal Capurro, di polke ne compose parecchie). Una canzone di Salvatore Di Giacomo e Vincenzo Valente, nel 1917 (Tango napulitano), sottolinea la popolarità del Tango in Italia, arrivato dal Messico una diecina d'anni prima. L'esempio era stato preceduto, e fu seguito, da altri poeti e musicisti. E occorre proprio dire che tutti i balli degli ultimi tempi: Fox, Shirnrny, Charleston, Rok n'roll, Beguine, Cha cha cha, hanno alimentato motivi di canzoni napoletane?

Vediamo, adesso, della nostra canzone, gli altri suoi generi e alcune sue manifestazioni:

MELODIA

E' il genere più comune. Non ha una forma precisa, non ha tempo obbligato e non sfocia mai nell'allegro sfrenato. E' la composizione più espressiva - com'è intesa universalmente e sin dagli antichi tempi - capace di suscitare nell'ascoltatore vibrazioni romantiche e commozione. E' vicina alla romanza da camera, da cui, qualche volta, ha tratto anche ispirazione, ma è a carattere più popolare.

SERENATA

Trovò i primi accenti sui liuti dei trovatori e dei giullari in pieno medioevo. Le più dolci serenate le ebbero Firenze e Venezia. Sempre suonata di sera, sotto il balcone della fanciulla amata, siccome dettava la consuetudine, anche a Napoli ha espresso i più comuni trasporti d'amore, compreso il dispetto. Prevalentemente sentimentale, il suo ritmo è basato sul tempo 3/4 o 2/4; qualche volta, per soggetti allegri, è stato usato il tempo cS~ (tagliato). La canzone napoletana vanta gioielli di "canzoni a serenata", e basterà citare: Maria, Marì del Di Capua, Scetate di Costa e Voce 'e notte del De Curtis. MATTINATA E' un componimento simile alla serenata, solo che, anziché di sera, o di notte, veniva cantato all'alba, per svegliare le ragazze, con una dichiarazione d'amore. Canzoni ispirate alla Mattinata sono state scritte fino ad oggi. Fra quelle antiche si ricordano: Primmamatina di Falvo (1912) e Buongiorno a Maria di E. A. Mario (1916).

Serenate e Mattinate, erano in gran voga a Napoli, sin dai primi anni del '200, ed erano tanto frequenti da generare fastidio. Nel 1221, l'Imperatore Federico Il, per le tante istanze pervenutegli dai napoletani che protestavano contro i cantori - ed erano parecchi - che all'alba turbavano il loro sonno con canzoni d'amore, o dispettose, con un apposito bando vietò le Mattinate. Ma gli innamorati non si dovettero dare per vinti se un'altra ordinanza del 1335, di Roberto D'Angiò, che rinnovava il divieto, provocò l'arresto del notaio Jacovello Fusco perché faceva di continuo cantare " mattinate " sotto la finestra di una certa Giovannella De Gennaro, donna maritata ed onesta; la quale donna, restia all'insistente corte del Fusco, s'era rivolta al re perché offesa ed esasperata dalle canzoni triviali che le dedicava il notaio. Al genere delle Serenate si possono assegnare anche le Ciambellarie e le Macriate, che hanno avuto vita dal '500 fino ai primi del '700. Don Pietro di Toledo, fra i tanti meriti che ebbe durante il suo viceregno, represse innumerevoli abusi che si commettevano nella città; fra i tanti, verso la metà del '500, quello delle Ciambellarie. Per dare l'idea di che cosa fossero queste deplorevoli manifestazioni riporto testualmente quanto scrive il Giannone (Storia civile del Regno di Napoli, Ediz. 1723 - Vol. IV -pag. 49): "Era si introdotto costume in Napoli che quando le donne vedove si rimaritavano, s'univan le brigate, e la notte con suoni villani, e canti ingiuriosi, andavano sotto le finestre degli sposi a cantar mille spropositi ed oscenità; e questi suoni e canti chiamavano Ciambellarie; donde ne sortivano molte risse, e talora omicidi; e sovente gli sposi per non sentirsi queste baje, si componevano con denaro, o altra cosa colle brigate, perché se n'andassero". Di qualche secolo dopo furono le Macriate, consistenti in un oltraggio portato a quei mariti che, essendo stati traditi, meritavano, secondo un pregiudizio largamente diffuso, derisione. Di notte, si riuniva una comitiva di musici e cantanti che, fermatasi sotto le finestre del disgraziato, narrava, a suon di musica, le disavventure della coppia; il tutto, rinforzato da contumelie e invettive. Questo malcostume, è da notare, si propagò anche fra la nobiltà: infatti giovani blasonati spesso si servirono di Macriate per offendere la donna che li aveva respinti o abbandonati, non tralasciando di far cadere il loro livore anche sui mariti, narrando in musica atroci verità, ma, più sovente, soltanto delle malignità. Nella notte di San Martino, protettore dei mariti.., sfortunati, le Macriate si decuplicavano. Le leggi del vicereame, benché ritenute ferree per le severe pene che assegnavano a chi era arrestato per tale reato, nulla poterono contro questa incivilissima usanza.

BARCAROLA

Canzone ispirata al mare e in generale, alle donne dei marinai e dei pescatori. La sua musica è suadente, ha un tempo di 6/8 o 12/8 ed imita il movimento cullante di una barca. Sono degli ultimi anni del '700 le prime barcarole napoletane, almeno quelle che si possono con sicurezza definire tali. Nell' '800 abbondarono, e alcune di esse ancora famose oggi, come la Santa Lucia di Cottrau, 'A sirena di V. Valente, Luna nova di Costa, 'O marenariello di Gambardella, fino alle più moderne Ncopp'a ll'onne di Fassone e Piscatore 'e Pusilleco di Tagliaferri. Uno dei più geniali autori di barcarole fu il M° Gaetano Lama.

MANDOLINATA

Ha il tempo della Serenata, ma è scritta prevalentemente per essere accompagnata da mandolini o da strumenti che riescono a produrre ugual trillo.

CANZONE A MARCIA

Il suo tempo ritmico è il 2/4 o il 4/4, più raramente il 6/8. Sin dai tempi antichi ha regolato il passo dei soldati. La canzone napoletana l'ha adottato per quei soggetti a carattere militaresco anche se, i protagonisti, soffusi come spesso sono, di nostalgia per la donna amata e per il paese lontano, di marziale hanno ben poco. Anche i temi a carattere patriottico sono stati trattati dai nostri musicisti, con lo stesso ritmo. Uno dei compositori di maggiore spicco, nel genere di canzone a marcia, è stato, nel primo quarto del nostro secolo, il M° Enrico Cannio; per tutte, valga la bellissima 'O surdato nnammurato.

LA MACCHIETTA

S'inquadra nel genere comico, ove sentimenti e atteggiamenti sono presentati di volta in volta, con spunti umoristici, satirici, ridicoli, ironici, grotteschi, arguti e scherzosi. Il suo scopo è di provocare il riso, od almeno un sorriso. La tnacchietta mette in primo piano un tipo, cerca il più possibile di ritrarne, deformandoli, i lati apparentemente comici, così come il vero artista della matita da un solo tratto caratteristico della figura che ha preso in oggetto, ricava una ben riuscita caricatura alterando, in piccolo o in grande, i punti che più sollecitamente lo hanno colpito. Nicola Maldacea, genuino asso della risata dal 1891, fu l'animatore, il numero uno del prestigioso "genere". La musica della macchietta non ha un ritmo particolare perché la sua funzione è di far da sottofondo alla mimica del macchiettista. Sin dal '600, la canzone napoletana ha avuto componimenti comici: Lo paglietta di Andrea Perrucci e Michelangelo Faggiolo; il '700, tante ne trasse dalle opere buffe, e l' '800, come per tutti gli altri generi di canzoni, ne ebbe moltissime: Lo cucchiere d'affitto, Don Ciccillo a la Fan farra, Stò tanto ncuietato pe stu fatto, La melizia terretoriale, ecc. Ma qui, in verità, si tratta di canzoni buffe e non di macchiette vere e proprie. La macchietta si differisce molto dalla canzone buffa, che, si ricordi, rinvigorì le sue radici nella commedia musicale del '700. Come ebbe origine la macchietta, l'apprenderemo dal suo ideatore: Ferdinando Russo, che ne parla in un articolo apparso su «La Tribuna» del 18 agosto 1925, dal titolo «Piedigrotta di oggi».

Or sono molti anni, dall'inizio della sua carriera di dicitore, Nicola Maldacea canticchiava con singolare espressione, le canzoni del tempo, Lariuld, Oilì-Oilà ed altre; ma non tutte, per mancanza quasi assoluta d'un volume - e direi meglio: d'un volumetto - di voce, poteva egli rendere con quella mirabile efficacia che lo ha fatto diventare celebre. Le canzoni, sia pure bene scelte e adattate alla vostra piccola voce, non sono per voi, gli dicevo una sera, dopo il suo debutto, che fu nondimeno una rivelazione, al «Salone Margherita», voi avete bisogno di un repertorio speciale, fatto di cose che non siano la vera e propria canzone. - E gli spiegai in che cosa consistesse questo repertorio; e per la prima volta gli parlai della macchietta. La macchietta era, per me che l'avevo ideata, una canzonetta appena cantata e un po' sussurrata, che serbando tutto il carattere napoletano, doveva delineare tipi, non sospirare d'amore; e questi tipi, curiosi, comici, o grotteschi, dovevano essere scrupolosamente interpretati. Maldacea questo poteva farlo prodigiosamente. Ed avrebbe così dato un nuovo genere di composizione, più importante della canzone perché di contenuto psicologico, e appena bisognevole di un tenue commento musicale che non superasse il suono della voce, sì da lasciare emergere, in tutta la espressione più efficace e sostanziale, la qualità singolare del dicitore, cioè la incarnazione, presentata al pubblico, di un tipo della vita. - E chi me le farebbe queste macchiette? - Io. Così sorsero le primissime macchiette: L'Elegante, Pozzo fa 'o prevete?, Il Cantastorie, Il Madro, Il Pompiere del teatro, Il Cicerone e tante altre. E il nuovo genere fu subito imitato perché accolto ed accettato, come una rivelazione, con entusiasmo indimenticabile. E durò un bel pezzo; poi, caduto in mano dei soliti guastamestieri, si andò deformando, senza logica, fino a degenerare in isconcezze e volgarità che non avevano alcuna ragione di essere. La macchietta, dopo il suo periodo d'oro, come avverte il caro Don Ferdinando, decadde verso il '20, per riprendersi, trasformata e aggiornata, alcuni anni più tardi, quando il maestro Giuseppe Cioffi e Gigi Pisano, non disdegnando di rimetter su questo componimento spassoso, ottennero clamorosi successi con Ciccio Formaggio, Datemi Elisabetta, L'hai voluto te!, Mazza, Pezza e Pizzo, ecc. E Nino Taranto, che ancora oggi ne è l'interprete, può considerarsi l'erede ed il continuatore di Nicola Maldacea.

CANZONE DI GIACCA

Già in voga verso la fine del secolo scorso con soggetti che esprimevano desideri di libertà dei carcerati, atteggiamenti spavaldi di guappi, si consolidò nei primi anni del nostro secolo con soggetti di cronaca nera. Prese il nome di "canzone di giacca" perché il cantante, smesso il frak indossato per cantare gentili melodie, si ripresentava al pubblico in giacca e con un fazzoletto annodato alla gola, per apparire vero figlio del popolo. Un abbigliamento, insomma, che gli permetteva di interpretare con maggiore naturalezza una canzone di contenuto drammatico o guappesco, e sfociante, quasi sempre, in un'azione violenta, in un progettato, o consumato, delitto. La musica, che aderiva al testo ora con slancio impetuoso, ora con sottolineature passionali, non ebbe nessun modulo particolare sebbene da più di un compositore venisse usato il tempo 4/4. Molti autori si cimentarono in questo genere, anche il Di Giacomo con Tarantella scura. Ma il vero creatore della canzone di giacca fu Libero Bovio. Le tre parti della canzone di Bovio erano congegnate con tecnica sorprendente, tanto da apparire come la sintesi di un dramma in tre atti. Ne scrissero anche E. A. Mario, Francesco Fiore, ed altri. Fra i tanti interpreti della canzone di giacca, i più efficaci furono Gennaro Pasquariello e Mario Mari.

CANZONE SCENEGGIATA

E' un lavoro teatrale il cui soggetto è stato tratto da una canzone. Già nell' '800, al San Carlino, l'Altavilla scriveva commedie sfruttando, a volte, il titolo di una canzone di successo, sicuro di richiamare pubblico. A sta fenesta affacciate!, Te voglio bene assaie, Don Ciccillo a la Fanfarra, fecero parte del suo repertorio. Eduardo Scarpetta, nel 1898, utilizzò un titolo del Di Giacomo: 'E tre terature, per una sua nuova commedia. Maldacea, la Faraone ed altri comici, al Salone Margherita, nell'ultimo decennio del secolo, interpretarono scenette che prendevano lo spunto e il titolo da canzoni di successo. Ma la sua vita migliore, la canzone sceneggiata la visse tra il 1920 e l'ultimo dopo guerra. Una compagnia formata dal comico Salvatore Cafiero (vedi) e dall'attore Eugenio Fumo, portò ai sette cieli questo genere che, curato nei minimi particolari, richiamava uno strabocchevole pubblico ogni qualvolta il lavoro portava il titolo di una canzone cantata e ricantata. Per la cronaca, si deve dire che, precedentemente, sebbene in una formazione più ridotta, c'era già stata una compagnia di sceneggiate: quella animata dai cantanti Mimì Maggio, Roberto Ciaramella e Silvia Coruzzolo.

TAMMURRIATA

Canzone allegra in cui il tamburo, agitato dalla cantante, diventa protagonista, fra tutti gli altri strumenti accompagnatori. Anche le canzoni campagnole, purché abbiano ritmo, possono far parte delle cc tammurriate ". Bellissima la Tammurriata palazzola di Russo e Falvo, quelle scritte da E. A. Mario, da Tammurriatella (versi di Furnò) a Tammurriata all'antica (versi di Murolo) e Tammurriata nera (versi di Nicolardi); quella di Tagliaferri: Tammurriata d'autunno, e tante altre.

CANZONI DI PRIMAVERA

Le canzoni dedicate a quella ch'è considerata come la più bella tra le stagioni, ebbero un grande sviluppo nell'ultimo decennio del secolo scorso. Le musiche tenui, flautate, d'un allegretto piacevole e insinuante, avevano, in un certo senso, il carattere delle antiche pastorali.
E come ogni anno, di Piedigrotta, le case editrici bandivano concorsi, pubblicavano novità, organizzavano audizioni, così, a partire dalla fine dell' '800, quando il calendario segnava il 21 marzo, le stesse case facevano altrettanto per lanciare le canzoni di primavera, quasi si trattasse di una seconda Piedigrotta. La consuetudine durò per oltre trent'anni; poi si diradò e, infine, fu del tutto abbandonata. Uno dei più dotati compositori di canzoni primaverili e campagnole fu Giuseppe Capo-longo. (E' Primmavera, Fronn' 'e cerase, Ammore ncampagna).

Non mi pare sia il caso di parlare, in queste note, anche perché gli argomenti richiederebbero particolari svolgimenti, dei Canti di malavita e dei Canti a figliola (appartenenti più al folklore che alla canzone); delle Canzoni religiose (scritte, come si è già accennato, in tutte le epoche e meritevoli di un discorso approfondito); dei Canti e delle Canzoni politiche (in massima parte di anonimi, specie quelle che riguardano le rivoluzioni del 1799 e 1848); delle Canzoni occasionali (scritte per avvenimenti importanti: la prima ferrovia, la prima funicolare, la ferrovia Cumana, l'invenzione della luce elettrica, della bicicletta, il variare della moda, ecc.). Né, ritengo, sia il caso di dar conto delle Parodie e del Duetto, due generi di canzoni che si spiegano da soli. Non mi resta, quindi, che parlare, sia pure fugacemente, della più importante festa napotana, "la festa delle feste", come dicono i suoi amatori, e che ha tanti legami con la can zone: la Piedigrotta.

LA FESTA DI PIEDIGROTTA

Lasciando da parte documenti e leggende che desumano la festa di Piedigrotta sia la continuazione purificata di feste pagane e baccanali; trascurando le testimonianze del Petrarca e del Boccaccio che videro affollare l'allora piccolo tempio dedicato alla Madonna di Piedigrotta dai marinai della spiaggia di Mergellina, si può, con ragionevole certèzza, ritenere che il culto dei napoletani per la Grande Madre nella ricorrenza della Sua natività, sia cominciato verso la metà del '409. Già prima, nel Santuario, ingrandito e abbellito più volte, si erano recati spesso sovrani, principi e ministri a pregare per grazie ricevute, ma le visite ufficiali dei regnanti ebbero inizio più tardi. "E' probabile - scrive il Volpicella - che sin dal 1528 incominciasse l'usanza della visita reale o vicereale, e la rivista militare che l'accompagnava". E le parate più o meno sfarzose, con carrozze e abbigliamenti eleganti dei nobili, sfilate di soldati, bande, fuochi d'artificio, navi che sparavano a salve, fiumane di popolo provenienti da tutte le città del Regno, durarono fino al 1861. Giuseppe Garibaldi - entrato in città -partecipò alla festa. L'anno successivo vi prese parte il Generale Enrico Cialdini. E fu tutto! I resoconti degli avvenimenti piedigrotteschi di oltre cinque secoli, sono sparsi in diari, guide e gazzette, e sono anche leggibili nel voluminoso e ben ordinato archivio della Basilica. E le canzoni? Scarse notizie. Si sa che durante il fanatismo per la tarantella, gruppi di popolani, nella notte della festa, ballavano nella grotta di Piedigrotta illuminata con torce, e nei viali della villa reale aperta al pubblico per l'occasione; e che, prima o dopo il ballo, si cantavano canzoni in voga. E' dalla nascita di Te voglio bene assaie, (1839), che si comincia a parlare di «Canzoni di Piedigrotta» .

Impropriamente, devo soggiungere, perché durante la festa non è che si intonassero canti nuovi di trinca, bensì canzoni che, già conosciute in altre circostanze e ambienti, soltanto in un secondo momento erano diventate, per la loro orecchiabilità, patrimonio dei popolani, di quei popolani che, durante la notte del 7 settembre, aspettavano l'apertura del Santuario di Piedigrotta, alternando canzoni a vino e cibarie. La tradizione canora e festaiola s'interruppe nel 1861; fu ripresa qualche anno dopo, nel 1876, per iniziativa di un distributore di giornali, certo Luigi Capuozzo. I Sovrani, e le loro truppe, non partecipano più alla nostra festa? Ebbene, li sostituiremo con sovrani e truppe finte, si dovette dire il Capuozzo. Senza frapporre indugi, radunò gli amici strilloni, e organizzò quella che doveva essere la prima cavalcata storica di Piedigrotta. Poi ricomparvero i carri allegorici, si riprese a cantare canzoni scritte su misura per esaltare, questa volta, gli aspetti più folkloristici della festa o per richiamare l'attenzione sulla validità del soggetto del carro. In comune con le «quadriglie» di fine '600, non restava che la propensione ad una gran scalmana da ricordare per tutto l'anno, scalmana nella quale la rapinosa conclusione di un tempo, era sostituita dal più modesto assalto a «ruoti» di melenzane di casalinga provenienza. La vera Piedigrotta delle canzoni la si può far coincidere con la nascita del caffè-concerto, allorché, in quelle sale, si prese l'abitudine di presentare piccoli gruppi di nuove composizioni nei pomeriggi, o sere, del 7, 8 e 9 settembre. Dal 1891, facendo valere una tradizione che, sebbene verde di anni, era ormai entrata nel costume dell'intera città, la Piedigrotta delle canzoni venne presentata nelle più importanti sale teatrali, di mattina, sempre nei medesimi giorni, e poi in normali spettacoli serali, tra agosto e settembre. Il seguito, è storia che abbiamo vissuto noi stessi.Qui
Ettore de Mura - Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969
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Messaggio Da athelas Sab 12 Dic 2009, 15:59

Quando i balli pugliesi? Adoro la pizzica WUB
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Messaggio Da Cantastorie Sab 12 Dic 2009, 19:12

si, è la Puglia che manca all'appello...sto preparando un post non solo sulle tradiz della pizzica, ma anche qualcosa sul Folk di Carpino (Fg) http://www.carpinofolkfestival.com/
su M. Salvatore, e su uno strumento tipico soprattutto della zona jonica tra Calabria e Puglia...la chitarra battente...
http://it.wikipedia.org/wiki/Chitarra_battente




e intanto lascio questo link pdf ..

sul canto tradiz pugliese..
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Messaggio Da Cantastorie Sab 12 Dic 2009, 19:54

ecco, ho trovato il sito-miniera a prop. della musica popolare pugliese '900 ...
archivio sonoro pugliese
E' un sito che raccoglie diverse schede tematiche; tre distinguono le aree geografiche - gargano - murgia - salento, un'altra sezione si occupa di singoli cantastorie protagonisti ..
Alcune tra le figure più significative della musica popolare pugliese.

http://www.archiviosonoro.org/puglia/i-protagonisti.html

Entrati in alcuni casi nel circuito dello spettacolo grazie al folk revival degli anni ’70 e all’esplosione della cosiddetta World Music degli anni ’90, gli esecutori più rappresentativi godevano di un riconoscimento particolare presso le comunità di appartenenza. Accanto a voci e volti diventati emblematici perché fissati su nastro e pellicola nel corso delle ricerche, vogliamo ricordare altri esecutori che, documentati nell'Archivio, continuano a tenere vivo il lascito delle generazioni precedenti.

* Aloisi Uccio
* Bandello Antonio
* Carbotti Martino
* Marzo Salvatora
* Petrachi Niceta
* Piccininno Antonio
* Sacco Andrea
* Salvatore Matteo
* Stifani Luigi
* Zurlo Antonio


Infine, una sezione di quel sito è dedicato agli Artisti o Gruppi di Riproposta, ossia di nuove formazioni che in qualche modo continuano il filone della Tradizione locale, esportandola fuori dai confini regionali..

per quanto riguarda il Ballo della Pizzica..

La Pizzica - Tarantata
E' una danza terapeutica individuale o collettiva che prende origine dall'antichissimo rito di guarigione dei tarantati e dal loro pellegrinaggio del 29 giugno presso la Cappella di San Paolo a Galatina.

La "Taranta" che si nasconde negli anfratti, nelle fratture della terra e tra le pietre a secco di muretti e Pajare, è in grado, secondo la credenza popolare, di pizzicare (da cui, appunto, il nome dato alla musica...).

E secondo le stesse credenze popolari, dal morso della tarantola si guariva solo grazie all'ausilio della nostra musica: la "pizzica".


TARANTA

Il rito terapeutico si svolgeva per lo più nelle proprie case dove con l'aiuto della musica, i tarantati, ipnotizzati dal ritmo musicale, entravano in uno stato di incoscienza e ballavano per ore ed ore fino a cadere stremati a terra e portando alla morte la tarantola. La musica quindi, ha un'importanza notevole in questo processo, infatti solo grazie alla "pizzica", suonata con un violino e un tamburello, la vittima si scatenava e riusciva a superare il suo stato di malessere.

La nascita di questo fenomeno nel Salento si fa risalire al 1.100 (anche se alcuni studiosi sono propensi ad anticipare notevolmente la datazione) e si manifesta in maniera diffusa almeno sino a tutto l'800. Oggi il "tarantismo" è praticamente inesistente, ma nel corso dei secoli ha acquistato una sua autonomia culturale e simbolica che lo svincola dal morso dell'insetto come causa diretta.

Ed anche l'interesse per la "pizzica" si è ormai consolidato come codice etnico (culturale e naturale) che si trasmette fra generazioni, unendo giovani, anziani e giovanissimi.

La Pizzica de Core
Si danza soprattutto in occasione di feste popolari, di matrimoni, battesimi e feste familiari. Si tratta di una danza "saltata" di coppia mista e ritmo veloce che viene ballata da tutti, grandi e piccoli, diventando espressione di sentimento di gioia. La pizzica de core rappresenta bene i sentimenti d'amore, la passione e l'erotismo.


Pizzica, il ballo del salento


La Pizzica - Scherma
E' un ballo che va di scena durante la celebrazione di San Rocco a Torrepaduli, frazione di Ruffano nella notte tra il 15 ed il 16 agosto.
E' una danza rituale di coppia, a tema antagonista, che in passato prevedeva la presenza di coltelli (Danza delle Spade) nelle mani dei danzatori e radunava i migliori suonatori di tamburello attorno ad interminabili ronde di danze e sfide che si prolungavano per tutta la notte. Oggi i coltelli sono sostituiti dalle dita: indice e medio della mano colpiscono il petto dell'avversario; tutt'attorno è musica e rullare di tamburelli a cornice. (48)
La scherma è danzata soprattutto da uomini e si accompagna bene con l'armonica a bocca.


Spoiler:
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Messaggio Da mambu Lun 14 Dic 2009, 17:47

Ho visto che con Capossela è venuto fuori Matteo Salvatore. Propongo allora un piccolo approfondimento su questo straordinario creatore di falsa musica tradizionale, uomo cresciuto nella miseria dei latifondi del Gargano e poi cantando canzoni in voga nelle trattorie mentre viveva nelle baraccopoli romane (più o meno quelle di Brutti, sporchi e cattivi).
Quando nel 1956 un intellettuale, il regista De Sanctis, gli chiese delle canzoni tradizionali - seguendo la moda di quegli anni -, lui prese i soldi, girò le osterie della sua terra dove scoprì che i vecchi ormai cantavano Il Piave mormorava, O sole mio e altre cose pseudopopolari. Finiti i soldi s'inventò un po' di pezzi e li vendette a De Sanctis come pezzi tradizionali.
In questo aneddoto c'è un po' il sunto di Salvatore, vero uomo del popolo che si portò dierto la condanna della miseria anche quando ebbe successo. E visse tra baracche, lusso, imbrogli, menzogne e pure quattro anni di galera per aver ucciso la sua donna ("La povera Adriana morì d'infarto. Io per quattro anni sono uscito dal giro dell'arte" racconta nella sua biografia, con quel misto di pudore e menzogna che i più vecchi tra voi avranno conosciuto nelle culture agricole tradizionali).
Ma è l'uomo che ha cantato questo

Padrone mio (da Myspace-ultimo brano)

Padrone mio ti voglio arricchire
come un cane voglio lavorare
quando sbaglio dammi le botte
voglio la morte non mi cacciare

Ho i figli che vogliono il pane
chi glielo dà? io glielo devo dare.

Padrone mio ti voglio arricchire


Vi propongo la lettura di due brevi articoli, uno dal sito preziosissimo segnalato da Canta
http://www.archiviosonoro.org/puglia/i-protagonisti/334-salvatore-matteo.html

Spoiler:

e uno scritto da Alessio Lega su Rivista Anarchica in occasione delle morte, nel 2005
http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/312/42.htm

Spoiler:

Giusto per dare un'idea più ampia vi propongo l'ascolto di una canzone d'amore (purtroppo è l'incisione del 2001, fatta per il Cd allegato a Matteo Salvatore, La luna aggira il mondo e voi dormite. Autobiografia raccontata ad Angelo Cavallo, Stampa Alternativa).

Lu bene mio

Altri brani di miseria bracciantile.. status statùss dominùss

Sempre poveri

E una storia che sembra di Scorza, ma questa è l'Italia non il Perù

Don Nicola si diverte

l'Italia degli anni '30, quella degli 8 milioni di baionette

Figliete figliete figliete!

Lu suprastende (il soprastante... quello che sorvegliava i braccianti a giornata) anche questa su myspace http://www.myspace.com/matteosalvatore

Ma da buon cantore popolano ha anche un ampio repertorio buffo

Le chicchiere de lu paese (con Capossela e Teresa De Sio. Il testo è mei commenti... abbastanza comprensibile anche per i polentoni)

magari anche un po' sporcaccione e giocato sui doppi sensi

La bicicletta
La via d'la funtanela

Nella sua caotica discografia sarebbe da recuperare il cofanetto di 4 Lp Le quattro stagioni del Gargano. Quasi impossibile.

Si può trovare Il lamento dei mendicanti, pubblicato dai Dischi del sole nel 1967 come raccolta di canzoni anonime tradizionali e ristampato anche all'estero, ad esempio nella collana Le Chants du Monde in Francia

http://www.ibs.it/disco/8012855376720/matteo-salvatore-1/lamento-dei-mendicanti.html
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Messaggio Da lepidezza Lun 14 Dic 2009, 18:07

grazie canta e grazie mambu.
ero certo che tu avresti potuto dipanare il riferimento di capossela..
trovi nel suo repertorio citazioni e commistione?
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